Oltre il bianco. “Mangiamo cultura..alla raccolta Manzù
di
Marcella Cossu
di
Marcella Cossu
La scelta del bianco, come tabula rasa da cui ricominciare ex novo, nonchè equazione suprema tra spazio, luce e nous intellettivo, è filo conduttore, a partire dagli anni novanta, della ricerca neoconcettuale di Massimo Palumbo, figura polivalente e complessa di artista a cavallo tra architettura e ambiente, interprete ideale della concezione contemporanea dell’ecomuseo inteso come salvaguardia e valorizzazione dell’insieme di caratteristiche storico-artistiche, ambientali, antropologiche, sociali, financo economiche, di uno o più territori, non necessariamente d’appartenenza, come per l’appunto si verifica nel caso in questione( “…noi che non abbiamo tetti” è infatti l’emblematico titolo della mostra di Palumbo, molisano d’origine “trapiantato”, come Manzù e molti altri ancora, nell’ Agro, apertasi lo scorso 30 gennaio presso il Teatro Comunale e il Palazzo della Cultura di Latina, a cura di Fabio D’Achille - con testi critici di Cristina Costanzo e Vincenzo Scozzarella -nell’ambito delle manifestazioni promosse da MAD Rassegna d’Arte Contemporanea di Latina, e al cui interno figurava l’installazione Mangiamo cultura,con la cultura si mangia, integrata dalla performance di Cristina Femiano). Il bianco dunque, procedendo à rebours nell’astrazione del dopoguerra, dagli immacolati Concetti Spaziali di Lucio Fontana del 1949-50, trasborda per i monochromes del duchampiano Yves Klein, per approdare nel 1960 a quel trionfo totale di “festa del bianco” rappresentato dalla collettiva tedesca Monochrome Malerei di Leverkusen, con, oltre allo stesso Klein, i milanesi Castellani e Manzoni di “Azimut”, i tedeschi di “Zero”, i romani Angeli, Festa, Lo Savio, Schifano, Uncini…questo sintetico accenno deve necessariamente tenere conto delle successive ricerche “total white” degli anni settanta da parte di artisti come Scarpitta e Kantor, e, acora, della preponderanza assoluta del bianco, come vuoto, totalità, rarefazione, nella generalità del pensiero estetico di tutto il concettuale.
In Mangiamo cultura peraltro- specie se posta a confronto con la maggior parte delle ultime installazioni di Palumbo, che addirittura titolava I Bianchi una serie di lavori degli anni novanta – il bianco non è più magma di accecante bagliore che calcifica e conglomera indissolubilmente oggetti e superfici, ma al contrario si fa velata scialbatura alla robusta e familiare plastica della “rosetta” di pane farcita dal ripieno della pagina stampata. L’installazione- ferro, pane, carta, testi letterari, e il semplice elenco dei materiali costitutivi ne è del resto miglior testo critico-corrisponde all’idea duchampiana dell’arte che qui ora si fa vita pensiero e azione, coadiuvata dalla forza di un titolo che è opera esso stesso…Mangiamo cultura , ironico e paradossale come l’assunto di un Ready-Made organico- e qui mi sorge spontaneo un flash di rimando al neopop statunitense degli opulenti cheesburger di Oldenburg a confronto con la contenuta italica rosetta-e, d’altra parte, …con la cultura si mangia, memento per quanto di più si dovrebbe poter fare, oggi in particolare, per un ottimale sfruttamento delle risorse , anzi dei “giacimenti”culturali del nostro Paese, in questo, dicono, il più ricco al mondo. O, se si preferisce aderire ad una lettura più idealizzante, ma anche più immediata, dell’installazione di Palumbo: “La forza del linguaggio performativo è funzionale al messaggio sotteso a tale intervento, ossia un invito da parte dell’autore a ognuno di noi: a nutrirci dell’arte, intesa come fonte di energia spirituale e come bene di prima necessità, semplice ma essenziale, come può esserlo il pane” (B.Mastrorilli, MassimoPalumbo: il lavoro e il progetto Kalenarte in “artapartofculture.net” del 18.02.2011)
L’installazione di Massimo Palumbo, esposta presso la raccolta Manzù nella seconda metà del novembre 2011, nella perentoria evidenza del messaggio di cui è latrice, si integra al massimo all’interno della politica culturale perseguita nel territorio dall’ecomuseo del Lazio latino e virgiliano, di cui la raccolta stessa costituisce ad oggi centro d’interpretazione attiva: di qui la speranza, se non la certezza, che i suoi contenuti trovino terreno particolarmente fertile nel pubblico del museo ardeatino. Per l’inaugrazione verrà replicata la performance di Elisabetta Femiano dedicata all’installazione, e verrà proiettato il video della mostra “…noi che non abbiamo tetti” (realizzazione Antonio Ventriglia, montaggio Antonio Petrianni).
In Mangiamo cultura peraltro- specie se posta a confronto con la maggior parte delle ultime installazioni di Palumbo, che addirittura titolava I Bianchi una serie di lavori degli anni novanta – il bianco non è più magma di accecante bagliore che calcifica e conglomera indissolubilmente oggetti e superfici, ma al contrario si fa velata scialbatura alla robusta e familiare plastica della “rosetta” di pane farcita dal ripieno della pagina stampata. L’installazione- ferro, pane, carta, testi letterari, e il semplice elenco dei materiali costitutivi ne è del resto miglior testo critico-corrisponde all’idea duchampiana dell’arte che qui ora si fa vita pensiero e azione, coadiuvata dalla forza di un titolo che è opera esso stesso…Mangiamo cultura , ironico e paradossale come l’assunto di un Ready-Made organico- e qui mi sorge spontaneo un flash di rimando al neopop statunitense degli opulenti cheesburger di Oldenburg a confronto con la contenuta italica rosetta-e, d’altra parte, …con la cultura si mangia, memento per quanto di più si dovrebbe poter fare, oggi in particolare, per un ottimale sfruttamento delle risorse , anzi dei “giacimenti”culturali del nostro Paese, in questo, dicono, il più ricco al mondo. O, se si preferisce aderire ad una lettura più idealizzante, ma anche più immediata, dell’installazione di Palumbo: “La forza del linguaggio performativo è funzionale al messaggio sotteso a tale intervento, ossia un invito da parte dell’autore a ognuno di noi: a nutrirci dell’arte, intesa come fonte di energia spirituale e come bene di prima necessità, semplice ma essenziale, come può esserlo il pane” (B.Mastrorilli, MassimoPalumbo: il lavoro e il progetto Kalenarte in “artapartofculture.net” del 18.02.2011)