Che il Parco Nazionale del Circeo rimanga Parco Nazionale! Vigiliamo, c'è qualcuno che lo vuole declassare...
una....pagina bianca di MASSIMO PALUMBO una pagina bianca di MASSIMO PALUMBO ....dover scrivere,disegnare, appuntare un qualcosa.... dare inizio ad una idea,ad un progetto.. e per un motivo o per un altro,essere completamente a corto di idee. Una relazione, un testo scritto, un articolo di giornale e ci troviamo davanti al foglio bianco senza sapere come iniziare...qualcuno ha già detto la sindrome del foglio bianco...
sabato 25 febbraio 2012
venerdì 24 febbraio 2012
la scacchiera
La Scacchiera,
1992
Massimo
Palumbo è l’anima e il cuore di Kalenarte, giunta oggi alla sua ventesima
edizione grazie all’impegno profuso nella sperimentazione e nel tentativo
(ampiamente riuscito) di coinvolgere artisti nazionali ed internazionali in
questo “folle” progetto.
Affermato
architetto a Latina, città in cui tuttora vive e lavora, è nato a Casacalenda
nel 1946.
Il
suo ambito di ricerca, a partire dal periodo della sua collaborazione alla
Cattedra di Composizione Architettonica presso l’Università La Sapienza di
Roma, è sempre stato il rapporto tra arte, architettura e ambiente, indagato
nei suoi molteplici e complessi aspetti.
La
consapevolezza della funzione etica dell’architettura (con le sue implicazioni
politico-sociali), per Massimo Palumbo ha come degno compimento la fruizione
pubblica dell’arte nello spazio urbano. Del resto, all’Università è stato
allievo sia di Maurizio Sacripanti, che spesso invitava scultori come Gastone
Novelli o Achille Perilli durante le sue lezioni, sia di Bruno Zevi, da cui ha
certamente ereditato la necessità che l'esperienza dello spazio architettonico
si prolunghi nello spazio urbano, nei vicoli e nelle piazze, per le strade.
A
tutto questo certamente bisognerà aggiungere il fervore che ruotava attorno
alla città di Latina, esperimento d’architettura futurista nell’ambito del
programma fascista di bonifica dell’Agro Pontino. E con uno dei maggiori
progettisti di edifici pubblici della prima metà del ‘900, come fu Angiolo
Mazzoni, il giovane architetto Massimo Palumbo ha stretto un rapporto di
amicizia nutrito da stima reciproca, come documentato anche dal carteggio tra i
due, conservato nell’Archivio Mazzoni presso il MART di Rovereto.
Tutte
queste sollecitazioni gli consentono di mescolare agilmente linguaggi e
materiali diversi, pur mantenendo sempre una leggerezza, soprattutto
nell’utilizzo plastico-figurativo di materiali semplici, come pietra, mattone e
ferro, grazie alla consapevolezza che lo spazio, da qualunque punto di vista lo
si studi, è sempre prima di tutto spazio della memoria.
Proprio
alla sua memoria Massimo Palumbo ricorre quando pensa alla realizzazione di un
Museo a cielo aperto nel paese e nei
dintorni di Casacalenda, in cui si possa concretizzare la dialettica tra
architettura, arte e ambiente circostante.
In
questo progetto si fondono anche la teoria e la pratica artistica, l’attività
del teorico-curatore e dell’architetto-designer, come del resto Palumbo si
andava affermando dalla fine degli anni Ottanta.
Il
suo contributo di artista al Museo all’Aperto è un omaggio al raffinato e
silenzioso scultore originario di Casacalenda, Franco Libertucci, scomparso nel
2002.
Il
riferimento all’ultima produzione di Libertucci diventa una scacchiera, realizzata nel 1992 per
piazza Pertini. Un intervento minimalista, semplicemente bicromo, che si
inserisce armonicamente nello slargo antistante il palazzo del Comune, fornendo
anche un secondo accesso all’edificio; nello stesso tempo, però, essendo un
piano inclinato fatto di pietra locale e ferro, elegantemente si lascia notare,
perchè non asseconda il pendio del terreno.
La scacchiera diventa un passaggio
cruciale, su cui le pedine si possono muovere secondo traiettorie differenti,
pur essendo tutte consapevoli di vivere una condizione di precario equilibrio.
Lorenza Cariello
Critico,Storico dell'Arte
Scacchiera, 1992
installazione ferro,
pietra.
MAACK
MAACK
Kalenarte Museo all’Aperto d’Arte Contemporanea di Casacalenda
Piazza Sandro Pertini
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i bianchi
..........I
materiali sono poveri e di scarto: scelti a nuove funzioni, nobilitati a nuova
vita. La stoffa rappresa, quasi coagulata e raggelata vuole esprimere una
carica espressiva, di tensione drammatica: pretende un contatto ravvicinato,
epidermico ed emotivo................, un desiderio, un
obiettivo da raggiungere, una meta? Non si sa.
Per ieri come per l’oggi
è un modo per azzerare simbolicamente tante cose, è il non colore che li
contiene tutti, è lo spazio psicologico ove riposarsi e vedere con occhi,
altri, il mondo che ci circonda...... mp. noi che non abbiamo tetti
Massimo Palumbo è architetto, artista, teorico ed operatore culturale e tutto ciò anima la sua produzione incentrata su una accorta ricerca dei materiali impiegati e al tempo stesso tesa verso l’idea dell’infinito. Nel microcosmo di ciascuna delle sue opere Massimo Palumbo racchiude infatti quel macrocosmo della Natura che costantemente alimenta il suo linguaggio capace di comprendere frammenti di oggetti e porzioni di vita, e di spaziare dalla scultura alla installazione, dall’Arte Ambientale alla Public Art.
I motivi ispiratori della sua ricca produzione sono le città con la loro storia, le loro strade e le loro piazze ma soprattutto, come più volte notato nel corso della sua carriera da critici e curatori, la Natura.
Emancipandosi dai limiti territoriali è al territorio stesso ed alla città che Palumbo ama volgere il proprio sguardo perché, come sottolinea Lorenza Cariello, ha appreso da maestri come Maurizio Sacripanti e Bruno Zevi “la necessità che l’esperienza dello spazio architettonico si prolunghi nello spazio urbano” e, come affermato dall’artista stesso in occasione dell’intervento urbano La fiamma del carabiniere realizzato a Latina in memoria dei caduti di Nassyria, si rivela fondamentale “andare nella direzione di una città unitaria che rifiuta l’idea e la pratica della città dei recinti”. La ricerca estetica e l’equilibrio formale che caratterizzano i suoi interventi si caricano quindi di implicazioni politiche, sociali ed etiche.
Interventi site-specific come Il dardo vìola, opera realizzata nel Parco Ranghiasci in occasione della “XXV Biennale di Scultura di Gubbio” del 2008 ed installazioni ambientali come … Un naufragio ci salverà, presentata nel 1995 all’interno di una chiesa sconsacrata nel centro di Sermoneta, creano una reciprocità tra l’intervento artistico e il contesto in cui esso si sviluppa instaurando un significativo coinvolgimento fisico ed ideologico che chiama in causa anche il fruitore dell’opera e fa sì che artista, spazio urbano e ambiente naturale non possano più prescindere l’uno dall’altro.
In questi anni Palumbo non si è limitato ad elogiare o descrivere la Natura; ascoltandola e dialogando con essa, ne è diventato l’architetto. E il Museo all’aperto “Kalenarte” che opera in sinergia con la “Galleria Civica d’Arte Contemporanea Franco Libertucci” di Casacalenda è la viva e pulsante testimonianza di questo impegno che costantemente si rinnova e del desiderio di condividere l’arte con la comunità destinando alla fruizione pubblica le opere realizzate da noti artisti nazionali ed internazionali.
Grazie alla passione e alla guida dell’architetto-artista Palumbo in venti anni di attività “Kalenarte” ha prospettato uno scenario inedito per il Molise e ribadendo la centralità del ruolo della Natura e dell’Arte nella società contemporanea si è affermato come snodo per la cultura, luogo di incontro per le idee innovative, incubatore di progetti per la società.
Gli esiti della ricerca raffinata e sperimentale di Palumbo sono assimilabili alla riflessione sviluppata nell’ambito di correnti come l’Arte Povera e il Minimalismo. Dal suo esordio ad oggi l’artista ha posto al centro della sua indagine neo-concettuale temi come il fare arte e l’essere nella società rimanendo al di fuori di un sistema.
Nelle opere caratterizzate da un efficace linguaggio di tipo minimalista come nel caso de La scacchiera, intervento urbano realizzato nel 1992 per la Piazza Pertini di Casacalenda, Massimo Palumbo celebra attraverso la geometria seriale l’importanza della riflessione nell’arte. Sviluppa un procedimento analogo con la significativa serie I Bianchi, work in progress avviato alla fine degli anni Ottanta che, a partire dalla superficie bidimensionale opera una riduzione alla struttura elementare del quadrato ed induce il fruitore a guardare “oltre” le opere stesse e ad approdare al pensiero ad esse sotteso.
Le tele di Massimo Palumbo sono libri in cui, analogamente all’operazione compiuta da Emilio Isgrò, cancellare e accennare soltanto; sono campi di battaglia attraverso cui affermare la dimensione etica dell’arte o denunciarne i luoghi comuni e le banalità; sono fogli bianchi in cui trattenere la dimensione della quotidianità attraverso giornali o altri oggetti comuni ed infine sono semplicemente tele che, accolta la lezione del Disegno Geometrico di Giulio Paolini, svelano l’arte con i suoi strumenti ed i suoi inganni.
Palumbo utilizza materiale di vario tipo come legno, ferro, stoffa, rame ed oggetti di recupero e, valicando i confini dei singoli linguaggi e delle molteplici espressioni artistiche che abbracciano anche il design e la performance, si è affermato come artista poliedrico e originale.
Si inserisce magistralmente nell’ambito di questa ricerca “…noi che non abbiamo tetti…”, personale di Massimo Palumbo ospitata in due luoghi simbolo della città di Latina, il Teatro Comunale e il Palazzo della Cultura, e presentata nell’ambito delle manifestazioni promosse da MAD Rassegna d’Arte Contemporanea a cura di Fabio D’Achille.
La nuova prova artistica di Palumbo si sviluppa in aperto dissenso con quanti semplicisticamente e superficialmente sostengono che la cultura non possa rappresentare una risorsa economica e ribaltandone il punto di vista propone l’installazione “mangiamo cultura, con la cultura si mangia…”.
L’intervento, ospitato all’interno del foyer del Teatro Comunale Gabriele D’Annunzio, prevede l’installazione lungo il pavimento a marmi policromi di un segno metallico a nastro dalle dimensioni di 0,60x6,00 cm sul quale disporre una serie di vassoi con pane e testi letterari. L’accostamento pane/letteratura rende esplicito l’invito a fruire la nuova installazione di Massimo Palumbo, ma anche a nutrirsi dell’arte intesa come patrimonio e occasione di crescita ed è, al contempo, un sottile rimando – finemente sottolineato dalla presenza dell’attrice e performer Elisabetta Femiano coinvolta nella lettura dei brani scelti dall’artista – a un ben preciso filone dell’arte contemporanea che si sviluppa dagli happening all’arte relazionale.
In occasione di “mangiamo cultura, con la cultura si mangia…” il Palazzo della Cultura di Latina dedica a Massimo Palumbo la mostra “…noi che non abbiamo tetti…”, personale che abbraccia sia l’intensa produzione degli anni Novanta sia gli ultimi lavori dell’artista. “…noi che non abbiamo tetti…” diventa così un momento di approfondimento della ricerca di Massimo Palumbo all’interno della quale tracciare un percorso, coerente e continuo, che si estende dalle opere ancora fortemente attuali spegniamo la luce, l’aria è irrespirabile e …Un naufragio ci salverà alle più recenti calips, la serie che utilizza come materiale privilegiato le cortecce di eucalipto care all’artista in quanto espressione della Natura, “cambio di stagione…quando?” ed “eppurepesa” nelle quali l’ironia lascia il posto alla riflessione.
È in questo modo dunque che le opere di Massimo Palumbo diventano viaggi e la sua indagine artistica un continuo esplorare la sempre più necessaria dialettica tra architettura, arte e ambiente e le possibilità dell’Arte come motore per la società e la comunità.
Cristina Costanzo
Storico e Critico d'Arte
30.01.11.
giovedì 23 febbraio 2012
cambio di stagione...quando
Una semplice gruccia, appartenente alla
quotidianità di ogni individuo e perciò ampliamente assimilata dalla comune
cognizione conoscitiva, irrompe dallo spazio modificandolo e occupandolo
prepotentemente. Un oggetto di uso quotidiano dunque, esile e
leggero, diviene enorme e potente come il messaggio sito sia nella disgiunzione
frammentaria della forma originaria, sia nella de contestualizzazione
dell’occasione d’uso. E’ in questo modo che Massimo Palumbo manda in
scena gli inusuali interpreti, siano essi lamiere, acciai, gessi, legni, sul
grande palcoscenico della nostra epoca storica. E’ in questo modo che l’artista
dona forma e vigore ai propri ideali, tramutandoli in quesiti e provocazioni,
conditi da una sana satira, prerogativa indiscussa del popolo italico.
E sul palco del nostro incerto “oggi”, titubante
nella lungimirante proiezione di un’ inconsistente “domani”, il Bianco,
accecante nella sua purezza, di Massimo Palumbo sembra urlare, sembra implodere,
mentre invoca ascolto, aiuto, soccorso.
Quindi il fare artistico assimila l’oggi storico ed
epocale, lo cristallizza, lo rende visibile e vivibile, è in grado di donare sintesi e struttura corporea ad un
antico concetto mentale, mai sopito: il cambiamento, l’evoluzione, che si
contrappone intellettualmente alla stasi, al ristagno sociale, al’immobilità
d’azione.L’opera di Massimo è interrogazione ed affermazione
insieme, sollecitazione e sarcasmo, è provocazione e stimolo, è messaggio
verbale e constatazione materiale, è logica e semiotica, è una finestra
socchiusa sul nostro vissuto e spalancata sul nostro vivere, non è una visione
ideologica utopistica, non muove dall’esigenza di dover inventare un nuovo
sistema, muove altresì dal reale bisogno di (ri)compattare e dare nuova linfa
alle radicate convenzioni di un popolo, e perciò è quanto di più concreto
l’arte concettuale del giovane terzo millennio possa offrire ad una sociologia
ormai antica e logora.
Una semplice gruccia, elevazione allegorica di una
frantumazione ideologica, è quanto di più esemplare l’arte contemporanea possa
elaborare e restituire alla sensibile attenzione di coloro che, andando oltre,
riescano a misurarsi e ad identificarsi in ogni singolo elemento di una tale
alienante disgregazione.
Francesca Piovan
Galleria Opera Unica
Via della
Reginella 11 Roma
"....cambio
di stagione A quando?! "
2011 Installazione
di Massimo Palumbo
a cura di Francesca Piovan
xx kalenarte
Campidoglio_ROMA presentazione del Catalogo
XX KALENARTE
galleria civica d'arte contemporanea franco liberucci
La storia di Kalenarte,
la collezione della Galleria Civica d’Arte Contemporanea e le sculture del
museo all’aperto di Casacalenda rappresentano un patrimonio di indubbio valore per
le esperienze complesse dell’arte contemporanea in Molise e nel nostro Paese. Il
rapporto speciale che questo piccolo e magnifico centro ha saputo creare con le
tendenze artistiche odierne e con molti loro protagonisti costituisce infatti
un esempio di grande rilevanza per una visione organica della città e del
paesaggio dove la storia e il presente, l’attualità e la tradizione si
integrano in un dialogo unitario e fecondo. Questo lungo e ampio progetto appare
dunque come una soluzione valida e concreta, come un possibile modulo germinale
da proseguire e da imitare, per rispondere concretamente alle questioni poste
dal problema dell’arte urbana e dai musei di arte contemporanea, sempre più
spesso al centro delle riflessioni su un’arte non più concepita per restare
chiusa nei suoi luoghi deputati e legati a una fruizione elitaria, ma destinata
ad aprirsi a un pubblico nuovo e sempre più ampio. La dialettica positiva e
virtuosa tra il passato e la contemporaneità, la possibilità di lavorare con la
creatività di oggi per dare una più intensa energia a territori e a stratificazioni
sociali che rischiano troppo spesso l’abbandono e l’oblio, hanno così trovato a
Casacalenda una qualità unica ed esemplare nel rapporto delle opere con
l’architettura, con la conformazione e la vita stessa del tessuto urbano e
nella creazione di una collezione permanente. La Galleria Civica Franco
Libertucci diventa dunque un ulteriore cardine di continuità all’interno di
questa lunga vicenda che ha saputo unire artisti di valore nazionale e
internazionale, nel tentativo, forse, di riscoprire il significato di un’arte che
possa essere ancora un elemento basilare della storia e dell’esistenza di una
comunità che vuole dare un senso più profondo alla sua memoria e al suo futuro.
LORENZO CANOVA
Università del Molise (1997)
mercoledì 22 febbraio 2012
il memoriale di peter eissenman a berlino
Il
Memoriale di Peter Eisenman a Berlino per gli Ebrei d’Europa assassinati
Esistere
nell’assenza di nomi
di Francesco Dal Co
di Francesco Dal Co
Il 20 agosto 1943, racconta W.G. Seebald,
l’"Operazione Gomorra", pianificata dalla Royal Air Force, è
compiuta. Diecimila tonnellate di bombe hanno ridotto Amburgo a una mare di
fiamme. I sopravvissuti si raccolgono in processioni che non hanno mete. Un
gruppo di loro tenta di assalire un treno; una valigia di cartone cade sul
marciapiede "si rompe e ne esce fuori il contenuto. Giocattoli, un
nécessaire per il cucito, biancheria bruciacchiata. Per finire il cadavere di
un bambino carbonizzato, ridotto a una mummia, che una donna ormai al limite
della follia si trascina appresso come vestigio di un passato solo pochi giorni
prima intatto".
Anche il comportamento di quella donna, di cui non conosciamo il nome, conferma che la fenomenologia della rimozione è fondata sul ricordo. Alla medesima fenomenologia appartiene anche il rifiuto della realtà che ha consentito agli abitanti delle città tedesche distrutte di rimettersi immediatamente al lavoro dopo la fine della guerra, perché "nessuno al mondo lavora così tanto e così duramente come i tedeschi", osservava Hannah Arendt nel 1950. Inciampando tra le rovine della loro storia, aggirandosi indaffarati tra i cumuli delle loro macerie -42,8 metri cubi ne spettavano ad ogni abitante
di Dresda -, i tedeschi "scrollano le spalle o reagiscono con risentimento
quando vengono loro ricordati gli atti orribili che ossessionano tutto il resto
del mondo" e osservandoli, continua Arendt, "ci si convince che
l’operosità è diventata la loro principale arma di difesa contro la
realtà".
Anche il comportamento di quella donna, di cui non conosciamo il nome, conferma che la fenomenologia della rimozione è fondata sul ricordo. Alla medesima fenomenologia appartiene anche il rifiuto della realtà che ha consentito agli abitanti delle città tedesche distrutte di rimettersi immediatamente al lavoro dopo la fine della guerra, perché "nessuno al mondo lavora così tanto e così duramente come i tedeschi", osservava Hannah Arendt nel 1950. Inciampando tra le rovine della loro storia, aggirandosi indaffarati tra i cumuli delle loro macerie -
Ora, ora che persino Berlino non è più
un’isola e la città non è più un organismo privato del diritto alla crescita da
una profonda, paralizzante cicatrice, l’indaffarata laboriosità, che come un
muro ha protetto i tedeschi dai fatti, potrebbe sembrare destinata a cedere. Lì
dove Albert Speer aveva progettato i monumenti del Reich millenario, sorgono
oggi grattacieli e piazze ordinate e il sistema nervoso della città divisa è
stato rimesso in funzione. Ma edifici eretti frettolosamente per rassicurare i
tedeschi e il mondo che la
Germania è definitivamente entrata a fare parte di una storia
che non sarà soltanto il popolo tedesco a scrivere, si allungano insicuri della
loro imponenza, afflitti dall’eccesso di eloquenza di cui si compiacciono.
I simboli della rimozione si sono dati
convegno accanto al vecchio Reichstag. Qui, una cupola spettacolare e ardita ha
preso il posto di quella disegnata a suo tempo da Paul Wallot, andata
distrutta; i turisti, avendo la possibilità di visitarla, possono salire sino
ai camminamenti sospesi e sfiorarne le vele trasparenti; dall’alto possono
ammirare, come accade a coloro che in un acquario osservano i pesci esotici, lo
spazio maestoso dove si compiono i riti della democrazia; possono provare
persino un senso di ebbrezza, dato che la tecnica è qui più che mai impianto
esibito, smemorata circostanza - scenografia sui cui effetti i costruttori
della cupola hanno puntato l’intera posta. Questa complessa macchina, nelle cui
superfici Berlino ricostruita pare riflettersi, sembra essere stata progettata
per zittire persino il fruscio delle parole ancor oggi in epigrafe sul frontone
del Reichstag, "Dem Deutschen Volk", per le quali Peter Behrens e
Anna Simons avevano disegnato caratteri che parevano strappati a una storia
secolare.
Qui, non a caso su un’area che avrebbe dovuto essere oscurata dall’ombra della Kuppelhalle e scomparire di fronte alle dimensioni della Grossen Platz progettate da Speer, accanto alla Cancelleria di Hitler, a poche decine di metri dal Reichstag, della Bradenburger Tor e di Pariser Platz ora ricostruiti, accanto al Tiergarten, si trova il Memoriale per gli Ebrei uccisi d’Europa. Quando Peter Eisenman ha vinto il concorso bandito per costruirlo correva l’anno 1997.
Qui, non a caso su un’area che avrebbe dovuto essere oscurata dall’ombra della Kuppelhalle e scomparire di fronte alle dimensioni della Grossen Platz progettate da Speer, accanto alla Cancelleria di Hitler, a poche decine di metri dal Reichstag, della Bradenburger Tor e di Pariser Platz ora ricostruiti, accanto al Tiergarten, si trova il Memoriale per gli Ebrei uccisi d’Europa. Quando Peter Eisenman ha vinto il concorso bandito per costruirlo correva l’anno 1997.
Berlino era allora indaffarata; molto c’era
da fare e anche il Reichstag reclamava la sua cupola, tranquillizzante e
spettacolare; così, in questo caso, le decisioni sono state prese lentamente,
l’ammirevole operosità tedesca ha conosciuto una battuta d’arresto, i fatti
sono stati tenuti ancora una volta a bada e solo il 10 maggio 2005 il Memoriale
è stato inaugurato.
Lo formano duemilasettecento steli, allineate lungo percorsi che tagliano ortogonalmente l’intera area, che misura circa20.000 metri quadrati .
Intorno, la città offre la vista di quinte che ne attestano la compiuta
ricomposizione e di edifici dai profili ascendenti, analoghi a quelli della
cupola vetrata che si leva sulle solide, ingenue e banali colonne del
Reichstag. Le steli del Memoriale, invece, sono conficcate nella terra; hanno
spessore e larghezza uguali, 95 e 237,5 centimetri ;
formano lunghe file parallele, separate, le une dalle altre, da una luce di 95 centimetri ; hanno
altezze diverse, da pochi a quattrocento centimetri. La terra e non l’etere è
l’elemento che le accoglie. Per lo più si levano verticali, e sono rare quelle
lievemente inclinate, quasi sia stato assegnato a queste soltanto il compito di
ricordare che chi rinuncia alla fuga nell’aria non è autorizzato a sottrarsi
all’inquietudine antica, ad ignorare l’instabilità degli appoggi che la terra
offre. Le steli sono monocrome e le loro terminazioni, come punti di rette che
poi si intrecciano a formare una fitta maglia, disegnano un profilo incurvato
in più direzioni, che la luce radente rende simile a un velario sospeso sul
terreno. Nessun nome e nessuna scritta compaiono sulle steli; nulla annuncia a
chi vi giunge che i cunicoli che gli si aprono accanto o di fronte
costituiscono un Memoriale, che l’architetto ha saputo concepire come un luogo
che tale è proprio perché ad esso non si adatta alcun nome.
Lo formano duemilasettecento steli, allineate lungo percorsi che tagliano ortogonalmente l’intera area, che misura circa
Tra le steli si affonda; lentamente, mentre
il cammino prosegue lungo i cunicoli, le chiome degli alberi e le cuspidi della
città scompaiono alla vista, stimolata dal progressivo affievolirsi della luce
del sole. I passi si succedono meccanici tra prospettive ossessive che variano
incessantemente senza mai mutare d’aspetto; il movimento attraverso la fissità
e la permanenza è privo di direzione e non ha meta: allontana da nulla e a
nulla avvicina, accompagnato unicamente da una crescente inquietudine
geologica.
L’opera dell’architetto si presenta frutto di
un lavoro essenziale e primitivo, simile a quello che richiedono lo scavo e le
operazioni di dissotterramento. D’altro canto, quelle steli, ricorda Eisenman,
non sono frutto della fantasia o dell’ingegno del progettista: erano già lì,
nascoste dall’edera dei giardini, dalla terra, dalla polvere delle distruzioni
accuratamente accumulata ai bordi del parco, come si è fatto con le rovine
delle baracche nel campo di stermino di Bergen-Belsen. Erano lì da sempre, nel
cuore della città cresciuta ordinatamente, distrutta e poi ricostruita - un
segreto che l’architetto ha soltanto forzato, senza osare per esso un nome.
Erano lì, quelle steli grigie, protette dalla
polvere depositata e dalla "scimmia che digrigna intelligentissima i
denti", come diceva Nietzsche, che ricorda agli uomini che di ciascuna di
queste pietre sono loro gli artefici e non già la follia della ragione che ne
ha guidato l’agire contingente.
Non è neppure una rovina quanto è affiorato, grazie al lavoro da archeologo che Eisenman ha compiuto sulla spianata di fronte al Tiergarten. Le rovine reclamano senso della storia e culto per il passato, atteggiamenti non richiesti, perché ad essa indifferenti, dalla monocroma monotonia delle steli che l’architetto ha immaginato di avere individuato e poi dissepolto. Nel Memoriale berlinese non si prova ciò che gli spiriti che intrattengono buoni rapporti con la storia avvertono di fronte ai luoghi che offrono alla vista i ruderi che ospitano, "in presenza dei quali", scrive Ernst Jünger, "desolazione e superbia si compenetrano stranamente: desolata tristezza per la fugacità di tutti gli sforzi umani, superbia per la volontà che con lena sempre rinnovata cerca di affermare che essa appartiene alle realtà imperiture".
Non è neppure una rovina quanto è affiorato, grazie al lavoro da archeologo che Eisenman ha compiuto sulla spianata di fronte al Tiergarten. Le rovine reclamano senso della storia e culto per il passato, atteggiamenti non richiesti, perché ad essa indifferenti, dalla monocroma monotonia delle steli che l’architetto ha immaginato di avere individuato e poi dissepolto. Nel Memoriale berlinese non si prova ciò che gli spiriti che intrattengono buoni rapporti con la storia avvertono di fronte ai luoghi che offrono alla vista i ruderi che ospitano, "in presenza dei quali", scrive Ernst Jünger, "desolazione e superbia si compenetrano stranamente: desolata tristezza per la fugacità di tutti gli sforzi umani, superbia per la volontà che con lena sempre rinnovata cerca di affermare che essa appartiene alle realtà imperiture".
Non vi è spazio per simili sentimenti nel
Memoriale, e neppure la paura è qui ammessa. Un’angoscia insopprimibile,
invece, afferra chiunque, abbandonati gli stretti camminamenti, decide di
entrare negli spazi ipogei, le cui coperture sono modellate dalle pieghe del
terreno sovrastante. Sono immagini contundenti, impermeabili ad ogni tentativo
di interpretarle, indifferenti alle domande, incuranti di ogni spiegazione,
quelle che si osservano nel sacrario ritagliato sotto la spianata delle steli;
rispondono soltanto ai nomi che le accompagnano, soli o riuniti in interminabili
elenchi. Leggendoli, si può immaginare a quali altri nomi di città o di
villaggi associarli, a quali paesi ricondurli, sino al punto in cui se ne
avverte il fitto affollarsi e il brulicante infittirsi, l’imponente dilagare
dal cuore del continente all’intera Europa,
Anche gli spazi ipogei del Memoriale sembrano
modellati facendo ricorso ad attrezzi molto semplici, che Eisenman ha
privilegiato per non concedere, nel costruirli, ruolo alcuno alla tecnica,
sapendone l’inadeguatezza ad evocare l’impossibilità di ricordare
collettivamente quanto neppure la memoria può sopportare e soltanto il
pensiero, nel suo esserci più radicale, dimesso, intransigentemente soggettivo
e nudo, può arrischiarsi ad affrontare.
Quelli che Eisenman ha impiegato, sono utensili
primordiali, non raffinati dall’uso e dal tempo, non molto più evoluti di una
vanga, usata per rimuovere il terreno e modellarlo, secondo quanto le steli che
lì si trovavano richiedevano. Ma così facendo e a dispetto della modestia
dell’attrezzatura utilizzata, il nostro architetto si è comportato da geologo,
da archeologo e fors’anche da biologo, se è vero, come Jünger ci induce a
credere, che lo studio degli strati di una sedimentazione geologica richiede
competenze analoghe a quelle di cui deve disporre chi intende conoscere il
passato delle nostre città. "Dal punto di vista biologico", scrive
Jünger, "fra uno strato che si è formato attraverso il depositarsi di
diatomee o l’accumulo di coralli e una di quelle grandi colline erette
dall’insediamento dell’uomo nel corso di molte generazioni non esiste
differenza. Nell’un caso come nell’altro troviamo resti di habitat mescolati
alla polvere dei loro abitatori. Una metropoli sotto il cui asfalto si
accumulano catacombe, sepolcri, rovine, macerie e calcinacci di cinquanta
generazioni richiama alla mente una barriera corallina. La vita abita
l’epidermide più superficiale e caduca, su cui muove i suoi tentacoli, si nutre
e inscena i suoi giochi di guerra e d’amore". Questo paragone è
istruttivo, ma soltanto se se ne rovescia il senso si rivela utile per spiegare
il significato del lavoro che Eisenman ha compiuto a Berlino. Le steli che
compongono il Memoriale non hanno né i colori né le forme variate delle
diatomee, né le iridescenze delle barriere coralline, e non sono neppure
accomunabili ai sepolcri, alle catacombe, alle rovine che dal profondo delle
città emergono a sfidare la nostra capacità di ricordare e immaginare. Queste
steli alludono a qualcosa che viene prima di tutto questo, omogeneamente grigio
e compatto, e riguarda l’uomo in quanto tale - l’uomo capace di ammirare sino a
chiamare corallo le curiose forme che osserva nel mare, ma al contempo di
riservare a sé ciò che non sarà poi neppure in grado di ricordare e di
nominare, liberando l’energia terribile che il suolo delle città da lui
costruite comprime, nasconde e conserva.
_________________
Questo saggio di Francesco Dal Co viene
pubblicato su archimagazine il 17 giugno 2005 su concessione della redazione di
Casabella ed è stato scritto per il numero 735 del mese di Luglio-Agosto 2005
della rivista Casabella
pillole d'architettura
Pillole d’architettura
“ Chiunque abbia degli ideali e che può
immaginare una vita migliore, sviluppa delle utopie.”
Jiulius Lengert
i bianchi
.....I BIANCHI
.....Quello dei "bianchi"
è un lavoro della fine degli anni
ottanta, un lavoro importante per me: il mattone iniziale sul quale e intorno
al quale verranno sistemate altre cose. Devo
confessare che ci sono stati momenti in cui ho desiderato " il fuori dal bianco"
ma ad oggi direi che è stato impossibile. Ci sono dei lavori che
dichiarano questo stato questa volontà, ma sono episodi. Il
catalogo del 1992, "i bianchi" fu presentato a Napoli e
Roma con testi di Patrizia Ferri e testimonianza di Achille Pace.
E' il 1992 e siamo agli
inizi degli anni novanta “……la fine dei valori stabili, delle antiche convinzioni, la
caduta dei miti, delle ideologie…… “, è l'occasione per azzerare.
“……un
naufragio ci salverà”
1995
Massimo Palumbo
Significativa, l'installazione “…un naufragio ci salverà” realizzata in una chiesa sconsacrata del centro storico di Sermoneta........
Il bianco
diventerà segno riconoscibile del fare
arte, che ritroviamo come filo conduttore in tante situazioni fino a giungere anche
nei lavori ultimi, installazioni comprese.
.........I materiali sono poveri e di scarto: scelti a nuove funzioni, nobilitati a nuova vita. La stoffa rappresa, quasi coagulata e raggelata vuole esprimere una carica espressiva, di tensione drammatica: pretende un contatto ravvicinato, epidermico ed emotivo................, un desiderio, un obiettivo da raggiungere, una meta? Non si sa.
Per ieri come per l’oggi è un modo per azzerare simbolicamente tante cose, è il non colore che li contiene tutti, è lo spazio psicologico ove riposarsi e vedere con occhi, altri, il mondo che ci circonda.
gnam raccolta manzù/mad
.
...........Il bianco dunque, procedendo à rebours nell’astrazione del dopoguerra, dagli immacolati Concetti Spaziali di Lucio Fontana del 1949-50, trasborda per i monochromes del duchampiano Yves Klein, per approdare nel 1960 a quel trionfo totale di “festa del bianco” rappresentato dalla collettiva tedesca Monochrome Malerei di Leverkusen, con, oltre allo stesso Klein, i milanesi Castellani e Manzoni di “Azimut”, i tedeschi di “Zero”, i romani Angeli, Festa, Lo Savio, Schifano, Uncini…questo sintetico accenno deve necessariamente tenere conto delle successive ricerche “total white” degli anni settanta da parte di artisti come Scarpitta e Kantor, e, acora, della preponderanza assoluta del bianco, come vuoto, totalità, rarefazione, nella generalità del pensiero estetico di tutto il concettuale. In Mangiamo cultura peraltro- specie se posta a confronto con la maggior parte delle ultime installazioni di Palumbo, che addirittura titolava I Bianchi una serie di lavori degli anni novanta – il bianco non è più magma di accecante bagliore che calcifica e conglomera indissolubilmente oggetti e superfici, ma al contrario si fa velata scialbatura alla robusta e familiare plastica della “rosetta” di pane farcita dal ripieno della pagina stampata. L’installazione- ferro, pane, carta, testi letterari, e il semplice elenco dei materiali costitutivi ne è del resto miglior testo critico-corrisponde all’idea duchampiana dell’arte che qui ora si fa vita pensiero e azione, coadiuvata dalla forza di un titolo che è opera esso stesso…Mangiamo cultura , ironico e paradossale come l’assunto di un Ready-Made organico- e qui mi sorge spontaneo un flash di rimando al neopop statunitense degli opulenti cheesburger di Oldenburg a confronto con la contenuta italica rosetta-e, d’altra parte, …con la cultura si mangia, memento per quanto di più si dovrebbe poter fare, oggi in particolare, per un ottimale sfruttamento delle risorse , anzi dei “giacimenti”culturali del nostro Paese, in questo, dicono, il più ricco al mondo. O, se si preferisce aderire ad una lettura più idealizzante, ma anche più immediata, dell’installazione di Palumbo.....
...........Il bianco dunque, procedendo à rebours nell’astrazione del dopoguerra, dagli immacolati Concetti Spaziali di Lucio Fontana del 1949-50, trasborda per i monochromes del duchampiano Yves Klein, per approdare nel 1960 a quel trionfo totale di “festa del bianco” rappresentato dalla collettiva tedesca Monochrome Malerei di Leverkusen, con, oltre allo stesso Klein, i milanesi Castellani e Manzoni di “Azimut”, i tedeschi di “Zero”, i romani Angeli, Festa, Lo Savio, Schifano, Uncini…questo sintetico accenno deve necessariamente tenere conto delle successive ricerche “total white” degli anni settanta da parte di artisti come Scarpitta e Kantor, e, acora, della preponderanza assoluta del bianco, come vuoto, totalità, rarefazione, nella generalità del pensiero estetico di tutto il concettuale. In Mangiamo cultura peraltro- specie se posta a confronto con la maggior parte delle ultime installazioni di Palumbo, che addirittura titolava I Bianchi una serie di lavori degli anni novanta – il bianco non è più magma di accecante bagliore che calcifica e conglomera indissolubilmente oggetti e superfici, ma al contrario si fa velata scialbatura alla robusta e familiare plastica della “rosetta” di pane farcita dal ripieno della pagina stampata. L’installazione- ferro, pane, carta, testi letterari, e il semplice elenco dei materiali costitutivi ne è del resto miglior testo critico-corrisponde all’idea duchampiana dell’arte che qui ora si fa vita pensiero e azione, coadiuvata dalla forza di un titolo che è opera esso stesso…Mangiamo cultura , ironico e paradossale come l’assunto di un Ready-Made organico- e qui mi sorge spontaneo un flash di rimando al neopop statunitense degli opulenti cheesburger di Oldenburg a confronto con la contenuta italica rosetta-e, d’altra parte, …con la cultura si mangia, memento per quanto di più si dovrebbe poter fare, oggi in particolare, per un ottimale sfruttamento delle risorse , anzi dei “giacimenti”culturali del nostro Paese, in questo, dicono, il più ricco al mondo. O, se si preferisce aderire ad una lettura più idealizzante, ma anche più immediata, dell’installazione di Palumbo.....
L’installazione di Massimo Palumbo, esposta presso la raccolta Manzù nella seconda metà del novembre 2011, nella perentoria evidenza del messaggio di cui è latrice, si integra al massimo all’interno della politica culturale perseguita nel territorio dall’ecomuseo del Lazio latino e virgiliano, di cui la raccolta stessa costituisce ad oggi centro d’interpretazione attiva: di qui la speranza, se non la certezza, che i suoi contenuti trovino terreno particolarmente fertile nel pubblico del museo ardeatino.......
Oltre il bianco. “Mangiamo cultura..alla raccolta Manzù”
Marcella Cossu
pillole d'architettura
Pillole d’architettura
"Il risultato non deriva mai dalla tecnica in se
ma, dalla ricchezza che viene dall’esperienza, e l’esperienza da frutti tanto
più grandi quanto più esaltata dalla volontà e dalla capacità dell’architetto
di fare cose espressive,che parlino…”
Mario Ridolfi
site_specific
. .....site
specific?? !!
.......questa sorprendente scultura site-specific è in Belgio Mehmet Ali Uysal
artist.
martedì 21 febbraio 2012
pillole d'architettura
........l'architettura
Pillole d’architettura
“Ciò di cui mi preoccupo non è di produrre forme interessanti, bensì delle qualità spaziali delle forme.”
Tadao Ando
procoio
dice Giorgio Maulucci pensando alla cultura a Latina e poi si imbatte
......in un poderoso “scudo”costruito da un Vulcano cittadino con un’energia,
una creatività paragonabile (si fa per dire!) a quella del mitico dio. Parliamo
di Fabio D’Achille, che con l’operazione fantastica del MAD è riuscito a
costruire un’intera stagione artistico-culturale popolando
i più diversi spazi della città (comei giri o le zone dell’omerico scudo),
dal foyer del teatro, dalla Pinacoteca, aicaffè, bar e locali sui generis
fino al pregevole Procoio di Borgo Sabotino.....
Condividiamo le parole di Giorgio Maulucci e riportiamo qui di seguito un nostro
intervento del marzo 2003.
L’inaugurazione (*)
Una inaugurazione durata una intera giornata per il MACL Il nuovissimo
Museo d’Arte Contemporanea di Latina.
Sono entrate, nell’arco della giornata, tante, tante persone. Una grande
festa collettiva tra suoni e musica, è stata una vera festa. Poi sono arrivati anche gli artisti.
È arrivato il Presidente della Repubblica. Il primo Cittadino e il Presidente
della Provincia scambiavano segni di intesa e di grande cordialità. Un'impresa
degna di Latina e di tutto il territorio Pontino. Miglior modo per ricordare il
18 Dicembre di quest’anno, data della fondazione, forse non c’era.
All’attenzione di tutti, il quartiere Nascosa, una volta Q5, ha ora il suo
gioiello, la periferia diventa sempre più città. E’ sicuramente un grande
giorno, Latina aggiunge un altro tassello di grande valore culturale per
l’intera provincia. L’intervento non ha nulla
da invidiare alle meraviglie e ai prodigi architettonici sorti nei vari
angoli del mondo in questi ultimi decenni. Oggi l’inaugurazione. La festa a
tarda sera, si è conclusa con i fuochi d'artificio. Infine, con gli ultimi
spettatori che si lasciavano alle spalle le agili e imponenti strutture,
tornavano i suoni lontani delle moto e delle auto che sfrecciano sulla Pontina.
I cancelli ora sono chiusi.
Quelle grandi strutture, gli spazi del nostro Museo, sono ripiombati nel
silenzio. Tutto cominciò con la passata amministrazione, un progetto serio di
grande respiro ha bisogno di tempi giusti. il Consiglio Comunale scelse il luogo.
Fu bandito un concorso internazionale ad inviti. Poi arrivò il 11 Luglio di tre
anni fa ed il gruppo “bonjour tristesse”, giovanissimi architetti under40, si
aggiudicarono il concorso per la costruzione del Museo d’Arte Contemporanea di
Latina, il MACL. Presero avvio i lavori, seguiti direttamente dal Sindaco, poi
lo scorso anno,l'ultima accelerazione. Mancava un ulteriore finanziamento,
poteva passare altro tempo, ma si è fatto quadrato, tutte le componenti
politiche hanno speso il loro impegno a favore di tale obiettivo e si è
compiuto il miracolo avviato in questi ultimi anni.
Nessuno, potremmo dire ha “remato contro”,
come per chi ben ricorda era la norma in anni non molto lontani.
Ognuno poteva avere un’idea e lo sport preferito era pensare e proporre il contrario.
Il risultato era che per decenni e decenni non si riuscì a concludere nulla: ogni iniziativa, ogni progetto era
sacrificato e moriva in partenza.
Per fortuna le cose col tempo cambiano e questo per Littoria-Latina è un vero
Rinascimento: dopo aver riportato a nuovo splendore il Palazzo delle Poste di
Angiolo Mazzoni, e realizzata la Biblioteca di James Sterling, ora è la volta di questo
importante edificio. Grande il nostro stupore: grandi gli ambienti espositivi,
spazi architettonici eccezionali, sale laboratorio per interventi work-in
progress. Un lungo percorso che ricuce il tutto: una promenade di sapore
mediterraneo che ben si snoda tra i giardini, profumi di limoni e ginestre ovunque.
Interessante lo spazio caffetteria e la terrazza ristorante ben integrati agli spazi per l’Arte.
Riconosciamo quasi a correre alcune opere di artisti del secolo scorso; nutrito
il gruppo dei contemporanei, intravediamo i sacchi di carbone di Kounnelis, in fondo sicuramente
un’opera di Mauro Staccioli : la sagoma è inconfondibile…e poi Mattiacci, e i nostri……...gli artisti del territorio
Pontino. Torneremo poi con calma a goderci le opere, le tante installazioni sparse un po’ ovunque lungo il percorso.
La nostra attenzione in questa giornata, è rapita dallo spazio architettonico, questa è l’occasione in cui l’architettura è cultura, cultura come conflitto di inquietudini, e di interpretazioni.
L’oggetto architettonico di qualità trasforma la cronaca in storia: davanti ai nostri occhi si concretizza l’evento, avviene il passaggio dall’utopia alla coscienza del quotidiano……Alcune riflessioni.
Ma uscendo da uno dei varchi che porta all’esterno, sullo sfondo si intravede uno specchio d’acqua.
Il canale di bonifica oramai da anni reso navigabile, porta con sé due vele verso il lago di Fogliano.
Nello skay-line di questo rosso tramonto di fine anno, la sagoma del Circeo è ben visibile; il bianco del MACL è forte, di grande effetto e a legarsi tra loro sono i materiali diversi, scelti con grande sapienza: il legno
di betulla, il piombo delle coperture, il travertino, il ferro corten, l’acciaio.
La tecnologia utilizzata è la migliore che esiste.
Il museo è stato pensato come vero e proprio tempio dell’arte, monumento per eccellenza sul
quale la città potrà rafforzare e rilanciare la sua immagine.
Spente le luci, ad inaugurazione avvenuta, il Museo, chiude gli occhi.
Il rumore del silenzio emette suoni siderali.
È un silenzio che si fa nostalgia di suoni scomparsi, forse sono brandelli dell'Inno di Mameli suonati poche ore prima, che spezzanole tante voci, i tanti suoni del popolo dei visitatori.
Tanti i visitatori, mai visti tanti, l’intera provincia ma anche l’interland dell’area metropolitana
romana. Latina è sempre più capitale, capoluogo culturale di area vasta.
Ilsenso di appartenenza è sempre più forte e l’orgoglio di riconoscersi in
momenti-evento come questo è patrimonio collettivo.
I giovani architetti hanno saputo interpretare a pieno il genius-loci e questo capolavoro d’architettura
con il suo plastico biancore mediterraneo, è un monumento all’Arte.
All’Arte dioggi, a tutte le espressioni che fanno il Contemporaneo, che altro non è se non
il nostro vivere, il nostro modo di essere e di esprimerci.
Per un giorno è stata festa, una grande festa accompagnata dalla musica e da suoni svariati.
L'augurio che bisogna fare al magnifico spazio costruito e fortemente voluto
dalle Amministrazioni che si sono succedute, è che là dentro si possano ammirare
e possano vedere la luce opered’arte dai suoni e rumori contemporanei.
Un luogo laboratorio e fucina di idee: guai se si chiudesse in se stesso, diventando
solo e soltanto un sempliceMuseo.
Le bianche forme, i forti volumi del Museo d’Arte Contemporanea di
Latina, sono di un organismo vivo, a cui il tempo e le intemperie cambieranno
il colore, muteranno aspetto alla materia. I progettisti hanno accettato la
sfida e hanno fatto in modo che le aggressioni della natura, col passare degli
anni, finiscano per dare più carisma, più vita. Un’opera essenziale ed elegante,
che solo l’arte raffinata del sottrarre assicura l’architettura.
Latina con questa opera oltre a riaffermare il ruolo leader sul territorio, si pone
all’attenzione del paese intero.
E’, questa opera d’Architettura luogo deputato ad accogliere la produzione culturale del nostro tempo.
Il museo d’Arte Contemporanea di Latina è anche un grande investimento nell’idea contemporanea
della città in cui il Museo, come affermava anni addietro Aldo Rossi, svolge il ruolo che un tempo
ricoprivano le cattedrali.
E’ luogo d’incontro privilegiato, che da semplice contenitore d’arte può essere vissuto come centro articolato di comunicazione e simbolo di rinnovamento della città.
Siamo certi che aiuterà anche ad attirare pubblico e a creare consenso,
oltre che ad essere soggetto attivo ed economicamente operante.
Negli anni passati, questo è già avvenuto, non solo in città poco attraente come Bilbao,
in Spagna, trasformata con il Guggenheim in una meta di primo piano del turismo
culturale, ma anche a Groningen, città del nord Olandese, nella quale il nuovo
museo disegnato all’inizio degli anni novanta da Alessandro Mendini porta ben
cinquecentomila turisti in più ogni anno.
Lo splendido Museo d’Arte Contemporanea di Latina, oggi inaugurato, è
come un grande strumento musicale che sicuramente darà “suono” alla sensibilità degli uomini di
oggi, di domani.
Il suono...…..Il “suono” a volte è forte…..ci scuote e ci sveglia,
interrompe…… il nostro sogno, ci riporta alla realtà, fa in modo che sentiamo i
nostri piedi saldi in terra.
Abbiamo recuperato la dimensione, l’aria, gli odori del nostro quotidiano. Torniamo a casa… tra le tante carte che portiamo dietro, l’ultimo numero di Casabella.
Il giornalaio del Q5 è sempre lì:….
il grande piazzale d’asfalto, la scacchiera disegnata dai ragazzi con un po’ di gesso, il cartello vendesi, un cane randagio che abbaia.
Le vele, scomparse oltre l’orizzonte.... Latina quattro settembre duemiladue.
MassimoPalumbo
“…cos’ è per te la speranza?
Per Aristotele, è un sogno fatto da svegli. ……
La speranza allora, non è metafisica, ma è la capacità di
progettare e di battersi per realizzare il Sogno…
” Da una conversazione tra Renzo Cassigoli e Renzo Piano"
“ La responsabilità dell’architetto” Passigli editori 2002
__________
(*) L’inaugurazione
di Massimo Palumbo da Littoria poi Latina CONTEMPORANEA 1945-2003
Riflessioni per una storia delle arti visive.
Marzo 2003
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