mercoledì 22 febbraio 2012

il memoriale di peter eissenman a berlino


Il Memoriale di Peter Eisenman a Berlino per gli Ebrei d’Europa assassinati

Esistere nell’assenza di nomi

di Francesco Dal Co
Il 20 agosto 1943, racconta W.G. Seebald, l’"Operazione Gomorra", pianificata dalla Royal Air Force, è compiuta. Diecimila tonnellate di bombe hanno ridotto Amburgo a una mare di fiamme. I sopravvissuti si raccolgono in processioni che non hanno mete. Un gruppo di loro tenta di assalire un treno; una valigia di cartone cade sul marciapiede "si rompe e ne esce fuori il contenuto. Giocattoli, un nécessaire per il cucito, biancheria bruciacchiata. Per finire il cadavere di un bambino carbonizzato, ridotto a una mummia, che una donna ormai al limite della follia si trascina appresso come vestigio di un passato solo pochi giorni prima intatto".
Anche il comportamento di quella donna, di cui non conosciamo il nome, conferma che la fenomenologia della rimozione è fondata sul ricordo. Alla medesima fenomenologia appartiene anche il rifiuto della realtà che ha consentito agli abitanti delle città tedesche distrutte di rimettersi immediatamente al lavoro dopo la fine della guerra, perché "nessuno al mondo lavora così tanto e così duramente come i tedeschi", osservava Hannah Arendt nel 1950. Inciampando tra le rovine della loro storia, aggirandosi indaffarati tra i cumuli delle loro macerie - 42,8 metri cubi ne spettavano ad ogni abitante di Dresda -, i tedeschi "scrollano le spalle o reagiscono con risentimento quando vengono loro ricordati gli atti orribili che ossessionano tutto il resto del mondo" e osservandoli, continua Arendt, "ci si convince che l’operosità è diventata la loro principale arma di difesa contro la realtà".
Ora, ora che persino Berlino non è più un’isola e la città non è più un organismo privato del diritto alla crescita da una profonda, paralizzante cicatrice, l’indaffarata laboriosità, che come un muro ha protetto i tedeschi dai fatti, potrebbe sembrare destinata a cedere. Lì dove Albert Speer aveva progettato i monumenti del Reich millenario, sorgono oggi grattacieli e piazze ordinate e il sistema nervoso della città divisa è stato rimesso in funzione. Ma edifici eretti frettolosamente per rassicurare i tedeschi e il mondo che la Germania è definitivamente entrata a fare parte di una storia che non sarà soltanto il popolo tedesco a scrivere, si allungano insicuri della loro imponenza, afflitti dall’eccesso di eloquenza di cui si compiacciono.
I simboli della rimozione si sono dati convegno accanto al vecchio Reichstag. Qui, una cupola spettacolare e ardita ha preso il posto di quella disegnata a suo tempo da Paul Wallot, andata distrutta; i turisti, avendo la possibilità di visitarla, possono salire sino ai camminamenti sospesi e sfiorarne le vele trasparenti; dall’alto possono ammirare, come accade a coloro che in un acquario osservano i pesci esotici, lo spazio maestoso dove si compiono i riti della democrazia; possono provare persino un senso di ebbrezza, dato che la tecnica è qui più che mai impianto esibito, smemorata circostanza - scenografia sui cui effetti i costruttori della cupola hanno puntato l’intera posta. Questa complessa macchina, nelle cui superfici Berlino ricostruita pare riflettersi, sembra essere stata progettata per zittire persino il fruscio delle parole ancor oggi in epigrafe sul frontone del Reichstag, "Dem Deutschen Volk", per le quali Peter Behrens e Anna Simons avevano disegnato caratteri che parevano strappati a una storia secolare.
Qui, non a caso su un’area che avrebbe dovuto essere oscurata dall’ombra della Kuppelhalle e scomparire di fronte alle dimensioni della Grossen Platz progettate da Speer, accanto alla Cancelleria di Hitler, a poche decine di metri dal Reichstag, della Bradenburger Tor e di Pariser Platz ora ricostruiti, accanto al Tiergarten, si trova il Memoriale per gli Ebrei uccisi d’Europa. Quando Peter Eisenman ha vinto il concorso bandito per costruirlo correva l’anno 1997.
Berlino era allora indaffarata; molto c’era da fare e anche il Reichstag reclamava la sua cupola, tranquillizzante e spettacolare; così, in questo caso, le decisioni sono state prese lentamente, l’ammirevole operosità tedesca ha conosciuto una battuta d’arresto, i fatti sono stati tenuti ancora una volta a bada e solo il 10 maggio 2005 il Memoriale è stato inaugurato.
Lo formano duemilasettecento steli, allineate lungo percorsi che tagliano ortogonalmente l’intera area, che misura circa 20.000 metri quadrati. Intorno, la città offre la vista di quinte che ne attestano la compiuta ricomposizione e di edifici dai profili ascendenti, analoghi a quelli della cupola vetrata che si leva sulle solide, ingenue e banali colonne del Reichstag. Le steli del Memoriale, invece, sono conficcate nella terra; hanno spessore e larghezza uguali, 95 e 237,5 centimetri; formano lunghe file parallele, separate, le une dalle altre, da una luce di 95 centimetri; hanno altezze diverse, da pochi a quattrocento centimetri. La terra e non l’etere è l’elemento che le accoglie. Per lo più si levano verticali, e sono rare quelle lievemente inclinate, quasi sia stato assegnato a queste soltanto il compito di ricordare che chi rinuncia alla fuga nell’aria non è autorizzato a sottrarsi all’inquietudine antica, ad ignorare l’instabilità degli appoggi che la terra offre. Le steli sono monocrome e le loro terminazioni, come punti di rette che poi si intrecciano a formare una fitta maglia, disegnano un profilo incurvato in più direzioni, che la luce radente rende simile a un velario sospeso sul terreno. Nessun nome e nessuna scritta compaiono sulle steli; nulla annuncia a chi vi giunge che i cunicoli che gli si aprono accanto o di fronte costituiscono un Memoriale, che l’architetto ha saputo concepire come un luogo che tale è proprio perché ad esso non si adatta alcun nome.
Tra le steli si affonda; lentamente, mentre il cammino prosegue lungo i cunicoli, le chiome degli alberi e le cuspidi della città scompaiono alla vista, stimolata dal progressivo affievolirsi della luce del sole. I passi si succedono meccanici tra prospettive ossessive che variano incessantemente senza mai mutare d’aspetto; il movimento attraverso la fissità e la permanenza è privo di direzione e non ha meta: allontana da nulla e a nulla avvicina, accompagnato unicamente da una crescente inquietudine geologica.
L’opera dell’architetto si presenta frutto di un lavoro essenziale e primitivo, simile a quello che richiedono lo scavo e le operazioni di dissotterramento. D’altro canto, quelle steli, ricorda Eisenman, non sono frutto della fantasia o dell’ingegno del progettista: erano già lì, nascoste dall’edera dei giardini, dalla terra, dalla polvere delle distruzioni accuratamente accumulata ai bordi del parco, come si è fatto con le rovine delle baracche nel campo di stermino di Bergen-Belsen. Erano lì da sempre, nel cuore della città cresciuta ordinatamente, distrutta e poi ricostruita - un segreto che l’architetto ha soltanto forzato, senza osare per esso un nome.
Erano lì, quelle steli grigie, protette dalla polvere depositata e dalla "scimmia che digrigna intelligentissima i denti", come diceva Nietzsche, che ricorda agli uomini che di ciascuna di queste pietre sono loro gli artefici e non già la follia della ragione che ne ha guidato l’agire contingente.
Non è neppure una rovina quanto è affiorato, grazie al lavoro da archeologo che Eisenman ha compiuto sulla spianata di fronte al Tiergarten. Le rovine reclamano senso della storia e culto per il passato, atteggiamenti non richiesti, perché ad essa indifferenti, dalla monocroma monotonia delle steli che l’architetto ha immaginato di avere individuato e poi dissepolto. Nel Memoriale berlinese non si prova ciò che gli spiriti che intrattengono buoni rapporti con la storia avvertono di fronte ai luoghi che offrono alla vista i ruderi che ospitano, "in presenza dei quali", scrive Ernst Jünger, "desolazione e superbia si compenetrano stranamente: desolata tristezza per la fugacità di tutti gli sforzi umani, superbia per la volontà che con lena sempre rinnovata cerca di affermare che essa appartiene alle realtà imperiture".
Non vi è spazio per simili sentimenti nel Memoriale, e neppure la paura è qui ammessa. Un’angoscia insopprimibile, invece, afferra chiunque, abbandonati gli stretti camminamenti, decide di entrare negli spazi ipogei, le cui coperture sono modellate dalle pieghe del terreno sovrastante. Sono immagini contundenti, impermeabili ad ogni tentativo di interpretarle, indifferenti alle domande, incuranti di ogni spiegazione, quelle che si osservano nel sacrario ritagliato sotto la spianata delle steli; rispondono soltanto ai nomi che le accompagnano, soli o riuniti in interminabili elenchi. Leggendoli, si può immaginare a quali altri nomi di città o di villaggi associarli, a quali paesi ricondurli, sino al punto in cui se ne avverte il fitto affollarsi e il brulicante infittirsi, l’imponente dilagare dal cuore del continente all’intera Europa,
Anche gli spazi ipogei del Memoriale sembrano modellati facendo ricorso ad attrezzi molto semplici, che Eisenman ha privilegiato per non concedere, nel costruirli, ruolo alcuno alla tecnica, sapendone l’inadeguatezza ad evocare l’impossibilità di ricordare collettivamente quanto neppure la memoria può sopportare e soltanto il pensiero, nel suo esserci più radicale, dimesso, intransigentemente soggettivo e nudo, può arrischiarsi ad affrontare.
Quelli che Eisenman ha impiegato, sono utensili primordiali, non raffinati dall’uso e dal tempo, non molto più evoluti di una vanga, usata per rimuovere il terreno e modellarlo, secondo quanto le steli che lì si trovavano richiedevano. Ma così facendo e a dispetto della modestia dell’attrezzatura utilizzata, il nostro architetto si è comportato da geologo, da archeologo e fors’anche da biologo, se è vero, come Jünger ci induce a credere, che lo studio degli strati di una sedimentazione geologica richiede competenze analoghe a quelle di cui deve disporre chi intende conoscere il passato delle nostre città. "Dal punto di vista biologico", scrive Jünger, "fra uno strato che si è formato attraverso il depositarsi di diatomee o l’accumulo di coralli e una di quelle grandi colline erette dall’insediamento dell’uomo nel corso di molte generazioni non esiste differenza. Nell’un caso come nell’altro troviamo resti di habitat mescolati alla polvere dei loro abitatori. Una metropoli sotto il cui asfalto si accumulano catacombe, sepolcri, rovine, macerie e calcinacci di cinquanta generazioni richiama alla mente una barriera corallina. La vita abita l’epidermide più superficiale e caduca, su cui muove i suoi tentacoli, si nutre e inscena i suoi giochi di guerra e d’amore". Questo paragone è istruttivo, ma soltanto se se ne rovescia il senso si rivela utile per spiegare il significato del lavoro che Eisenman ha compiuto a Berlino. Le steli che compongono il Memoriale non hanno né i colori né le forme variate delle diatomee, né le iridescenze delle barriere coralline, e non sono neppure accomunabili ai sepolcri, alle catacombe, alle rovine che dal profondo delle città emergono a sfidare la nostra capacità di ricordare e immaginare. Queste steli alludono a qualcosa che viene prima di tutto questo, omogeneamente grigio e compatto, e riguarda l’uomo in quanto tale - l’uomo capace di ammirare sino a chiamare corallo le curiose forme che osserva nel mare, ma al contempo di riservare a sé ciò che non sarà poi neppure in grado di ricordare e di nominare, liberando l’energia terribile che il suolo delle città da lui costruite comprime, nasconde e conserva.


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Questo saggio di Francesco Dal Co viene pubblicato su archimagazine il 17 giugno 2005 su concessione della redazione di Casabella ed è stato scritto per il numero 735 del mese di Luglio-Agosto 2005 della rivista Casabella