venerdì 8 febbraio 2019

Ciao Carmine.





Ciao Carmine, ti voglio salutare, ti voglio ricordare riportando qui di seguito un tuo scritto. Ci siamo conosciuti ed in comune prima ancora dell'amore per l'arte..ci univa la terra di origine ..il Molise.
Ma tu a San Cesareo io a Latina portavano avanti le nostre battaglie. Amavi  l'arte, la bellezza e la complessità delle cose...aprire una tua rivista era sempre motivo di stupore, era il tuo mondo la tua passione... ciao Carmine .


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Massimo Palumbo
Dall’Emozione al Gesto

Il 26 novembre ho incontrato Massimo Palumbo a Latina dov’egli vive ed opera, un venerdì importante per la città pontina che lo ha vissuto all’insegna della cultura presentando una rassegna di arti figurative curata da Vincenzo Scozzarella che ha riunito "Gli artisti di Latina in 900 minuti per la città del 2000", nel Palazzo della Cultura - Foyer del Teatro, dalle ore 9,00 alle ore 24,00. Con Massimo Palumbo hanno esposto Sergio Ban, Giuliana Bocconcello, Carmine Carbone, Nicoletta Piazza, Massimo Pompeo, Patrizia Talamo, Venanzio Manciocchi, Carla Viparelli e Tonino D’Erme. Una mostra interessante raccolta nella tematica "Dall’Emozione al Gesto - Il Primitivo nell’arte contemporanea". All’interno una mostra di Fotografia organizzata dal Foto Club di Latina e la presenza della Casa editrice Har Tzion. Nel Teatro è stato presentato uno spettacolo gratuito no stop di musica, teatro e danza che ha visto all’opera artisti locali.
Vorrei ora dire qualcosa sul lavoro globale di Palumbo partendo a ritroso e quindi ad iniziare dal lavoro che ha presentato in questa occasione. Su di un drappo ‘Nero’, Massimo ha collocato due opere ‘Bianche’ realizzate con tecnica mista su tela e gesso su legno di cm 40×40 ciascuna; l’una intitolata "L’aria è irrespirabile", l’altra "Spegnete l’interruttore". Ed anche uno sgabello impagliato che fa da piedistallo ad un corpus di tele, carte ed oggetti impacchettati e uniformati con l’‘Argento’.
"...È una vocazione per Palumbo costruire nel bianco, utilizzato come materia della pittura in senso sintetico, in una costruzione non geometrica designabile come area vuota, per cui l’opera è manifestazione di luce. In questo senso il lavoro dell’artista è illuminato e illuminante perché il minimo vedere sia massimamente significativo". (1) Patrizia Ferri cosí si è espressa nella presentazione della monografia Massimo Palumbo - "i bianchi". E da qui voglio iniziare la mia breve riflessione sull’opera vista in questa mostra. È noto che il bianco è definito colore acromatico perché non è una particolare tonalità bensí le ingloba tutte, infatti, la scomposizione della luce che dobbiamo a Newton rende visibili i sei colori definiti puri dell’iride. Ora, proiettando i colori detti primari e cioè il rosso, il giallo e il blu, tramite filtri colorati, si ottiene il bianco. La stessa cosa accade per il nero che è assenza totale di luce e cioè, colorando una superficie si sottrae alla luce la parte colorata e sovrapponendo quindi rosso, giallo e blu, si ottiene il nero.
Alla luce di queste conoscenze va da sé che per un artista la scelta dei colori è fondamentale. Allora, il drappo nero, assume una rilevanza essenziale perché suggerirà l’azzeramento di qualsivoglia tonalità per concentrare l’attenzione e renderla viva. Parimenti, le opere bianche, in considerazione di come si ottiene il bianco, attestano - attraverso la chiara esplicitazione del significato conferito già nei titoli - l’inequivocabile significante: la necessità di rendersi conto e di porsi domande sul contenuto delle opere che poggiano sul pavimento perché rappresentano la base, il fondamento della presa di coscienza che l’artista vuole condividere con l’osservante.
Queste stesse opere, unite simbolicamente a quelle della ricerca globale di Palumbo, subiscono una trasformazione immediata e mediata dalla mostra, per divenire bagaglio a disposizione di e per tutti. Esse sono custodite e affidate all’ Argento e l’Argento non è un colore bensí un metallo, nobile metallo duttile e malleabile da poter essere trasformato in Oro, metallo nobilissimo e piú prezioso il cui valore è la base per stabilire il valore delle cose utili alla vita.
Anche a questo deve tendere la vera Arte.

Carmine Mario Mulière









lunedì 4 febbraio 2019

Galileo



....una foto di mio padre Galileo premiato  da un giovanissimo Feltri  a Guardialfiera nel Molise ed era il 1991. Mi chiedo ma cosa ci fa Feltri a Guardialfiera nel Molise nelle Terre del Sacramento le terre di Jovine .
Poi mi imbatto in un articolo su Libero, scritto proprio da Feltri,  ed il Cerchio si chiude.




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Un viaggio, il primo bacio, una scappatella, un amore vissuto o sognato. Al mare, in montagna o in una città deserta. Raccontateci la vostra estate da ricordare, come hanno fatto Renato Farina e Vittorio Feltri, scrivendoci a
lamiaestate@liberoquotidiano.it. Di seguito, il racconto di Feltri.

Renato Farina ha raccontato le sue prime vacanze al mare negli anni del cosiddetto boom economico. All’epoca era diffuso l’ottimismo e anche la piccola borghesia ne era contagiata: voleva a tutti i costi provare l’emozione di stare all’ombra in spiaggia sotto l’ombrellone a osservare i bambini giocare con sabbia e paletta. Non è vero che fossero bei tempi, si lavorava tanto e si guadagnava poco, non esistevano le pensioni sociali né la settimana corta, i vecchi o erano a carico dei figli o filavano in squallidi ospizi finanziati dalla carità pubblica, cioè dai soliti preti.

Anche io da bambino, 4 o 5 anni, vidi il mare ma dal finestrino di un treno, linea Milano-Lecce. La norma era partire la sera alle 22 per arrivare a Termoli (Molise) la mattina verso le 8. Per molti chilometri il diretto costeggiava l’Adriatico. Col naso incollato al vetro, all’alba guardavo le onde che si tingevano di rosso per effetto del Sole che sorgeva dall’acqua sulla linea dell’orizzonte. Uno spettacolo nuovo per un montanaro come me, abituato a paesaggi alpestri. La locomotiva era lenta, nello scompartimento che ospitava la mia famiglia, tre fratelli e una zia, Clementina, c’era altra gente che russava: alla luce viola della lampada notturna, ne studiavo i volti con quelle bocche spalancate alla ricerca di ossigeno. Scoprii così che l’umanità fa in genere schifo, mentre il mare, placido e imponente, aveva un aspetto rassicurante. Ma per noi vacanzieri poco abbienti non c’era verso di metterci piede. La nostra destinazione non era Termoli marittima. Qui giunti, scendevamo in fretta dalla carrozza e di corsa salivamo sulla littorina che portava a Campobasso, risalendo la valle del Biferno ovvero le Terre del Sacramento, quelle del capolavoro letterario di Francesco Jovine, nativo di Guardialfiera, esattamente il Paese dove noi sfigati orobici sopravvissuti alla guerra mondiale, ci stavamo recando. Ci avrebbe ospitato un’altra zia, Nella, sorella della citata Clementina, nel migliore palazzo della contrada più elegante, si fa per dire.

La dimora era di proprietà di un signore, Baranello, il cui feudo era amministrato dal marito di zia Nella, Ernesto. Era talmente pregiato l’edificio in questione da essere dotato addirittura di un cesso, una rarità nel Mezzogiorno campagnolo degli anni ’50. I guardiesi la facevano dove capitava, preferibilmente nei dintorni del Monte Calvario, o in un dirupo detto Fischia Mammuccia. I duemila abitanti del luogo campavano di pasta al pomodoro insaporita dal pecorino e una goccia (solamente una goccia) di olio. Dopo il tramonto i maggiorenti facevano lo struscio, passeggiando per corso Umberto (che attraversava interamente il centro urbano). Non ho mai capito perché indossassero la giacca del pigiama in pubblico e in largo anticipo sull’orario di andarsene a dormire. I bimbi di due o tre anni esibivano disinvoltamente il pene, che fuorusciva da un foro creato a bella posta nei pantaloncini, allo scopo che spandessero la pipì dappertutto tranne che nelle braghette. Trovata geniale ma inelegante. A Guardialfiera non esistevano mezzi di trasporto a motore. Il primo scooter, acquistato da Romolo, gestore di un bar rustico e forse per questo molto frequentato, suscitò scalpore tra la gente. La quale, quando udì il rombo lontano della Lambretta che discendeva da Casacalenda, si riversò in massa ai bordi della via Nova, per accogliere degnamente e applaudire il fortunato pilota. Una scena memorabile cui assistetti sbigottito e divertito. La pressoché totale assenza di motociclette e automobili era compensata da una grande diffusione di ciucci, asini che da puledri erano (sono) dolci e splendidi, chiamati dal popolo petracchi.

Mio zio, Ernesto, nonostante fosse in Molise da oltre 20 anni, parlava un italiano infarcito di termini dialettali bergamaschi, eppure tutti lo capivano. Per trasferirsi da una masseria all’altra, utilizzava un biroccio solido trainato da due cavalli, uno dei quali, furbetto, fingeva spesso di tirare e allora l’altro, che se ne accorgeva, lo mordeva sul collo incazzato nero, per stimolarlo a collaborare. Adoravo i cavalli ed ero affascinato dal lavoro dello zio Ernesto, che mi portava con sé ogni mattina nei suoi tour in un vasto territorio disseminato di cascine tenute da contadini servizievoli, come sanno esserlo soltanto i poveri alle dipendenze dei ricchi. Mi insegnò i segreti dell’agricoltura, a distinguere il grano tenero da quello duro, il lino dalla canapa. Mi ero ficcato in testa di fare, da grande, l’agronomo. Mi scocciavano però le levatacce: la mattina si partiva alla cinque e si tornava a mezzogiorno, sfiniti dal caldo e con una fame da lupi. La coppia di trottatori schiumava sotto i finimenti e ciò mi rattristava e mi induceva, raggiunta la stalla, a rinfrescarla con una spugna inzuppata in un secchio d’acqua. Nacque in questo modo la mia passione per gli equini. Nei giorni di festa arrivava la banda che in piazza organizzava concerti a cui nessuno del paese rinunciava, non vi erano altri intrattenimenti. Noi ascoltavamo la musica seduti su sedie che ci portavamo da casa, come faceva chiunque, del resto. Tre mesi d’estate, e per almeno due lustri, questa fu la mia vacanza da terrone ad honorem, accolto e coccolato dai guardiesi lusingati dal fatto che avessi imparato perfettamente la loro lingua, un po’ napoletana e un po’ pugliese, assimilata grazie all’amicizia con qualche coetaneo locale con cui trascorrevo interminabili e assolati pomeriggi.

Confesso che al mare non ci sono mai andato, né allora né dopo. Ripiegavamo sul fiume, il Biferno. Ci tuffavamo nell’acqua fresca (mossa da una corrente vigorosa) e pulita, sempre trasparente; alcuni la bevevano con voluttà perché su, a Guardia, il prezioso liquido occorreva procurarselo alla fontana, riempiendo tine che, poi, le donne collocavano sulla propria testa e con passo incerto raggiungevano il proprio domicilio. I rubinetti domestici erano sconosciuti, o meglio un lusso inaccessibile causa miseria. La doccia e la vasca da bagno: non c’era anima che sapesse che fossero, roba misteriosa. In compenso la manodopera era pagata in natura: un sacco o due di frumento, da consegnare all’ammasso per ricavare quattro soldi, cinque o sei bottiglie di olio, un po’ di fave e un pugno di spiccioli.

Il prete, don Natale, era fortunato perché aveva un maiale che girava libero per i vicoli e nutrito dai rifiuti della popolazione credente e generosa. Per distinguere il suino parrocchiale gli mozzavano da piccolo un pezzo di orecchio. I ragazzini gli volevano bene e piangevano allorché lo sacrificavano. Piansi anche io. E ancora mi commuovo se vedo un porcellino da qualche parte. Quello che per sommi capi ho narrato era il Sud di una volta, il Sud delle mie modeste e indimenticabili vacanze. Poi c’è qualche scemo che mi domanda perché da ragazzo sia stato di sinistra. Una decina di anni orsono tornai a Guardialfiera, invitato dall’amministrazione municipale, e fui accolto dalla banda. Mia moglie ed io volevamo sprofondare. Ma eravamo orgogliosi di essere diventati terroni ad ogni effetto. Ultima ammissione. Non ho mai messo piede nel mare. Mi dicono sia salato.

Ne dubito. Chi ci butta il sale, con quel che costa?

di Vittorio Feltri