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una....pagina bianca di MASSIMO PALUMBO una pagina bianca di MASSIMO PALUMBO ....dover scrivere,disegnare, appuntare un qualcosa.... dare inizio ad una idea,ad un progetto.. e per un motivo o per un altro,essere completamente a corto di idee. Una relazione, un testo scritto, un articolo di giornale e ci troviamo davanti al foglio bianco senza sapere come iniziare...qualcuno ha già detto la sindrome del foglio bianco...
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mercoledì 15 febbraio 2017
martedì 14 febbraio 2017
works/opere
di Salvatore Davì
Entrando negli spazi della Bottega 6 ai Cantieri Culturali alla Zisa si percepisce una dimensione dilatata del tempo e dello spazio; si è spettatori di una mostra estremamente evocativa che propone la visione bipolare del fare artistico: nelle opere di Massimo Palumbo etica ed estetica coincidono, si toccano e si fondono, costruendo un percorso che supera l’apparente candore materico e dando voce ad una profonda riflessione sociale. L’artista lo fa attraverso un esubero di ‘bianco’ e una disposizione all’indagine dello spazio urbano attraverso una serie di elementi naturali e materiali poveri (legno, ferro, carta, etc). Vivi, mostra a cura di Cristina Costanzo, è composta da lavori quasi tutti realizzati per l’occasione, quasi come un insieme di frammenti di una grande installazione site specific; la mostra si configura come un monito generazionale che scruta le mosse del recente passato e invita ad una nuova presa di coscienza. Ciò che colpisce sono la semplicità e quel velato romanticismo ideologico che, però, non toccano mai la soglia del retorico, ma che puntano all’immagine stricto sensu e al suo potere comunicativo ed evocativo. Semplice. Una forma, un’idea e la concentrazione di simboli efficaci e chiari: le bianche barche come invito alla scoperta, all’indagine e alla critica, la bilancia che pesa la Costituzione Italiana, i libri bianchi e intonsi come consiglio per scrivere la storia di domani, il peso paradossale della gommapiuma. L’allestimento supera le difficoltà strutturali dello spazio espositivo e si costruisce elegante; gli elementi si toccano e tracciano una composizione uniforme, un excursus sul lavoro dell’artista e sul ruolo che ha avuto e che deve avere in società, uno sguardo compatto che riflette “sulla società contemporanea attraverso la dialettica tra architettura, arte e ambiente ma anche come esortazione, per l’appunto ‘Vivi’, ad osservare con sguardo critico la realtà che ci circonda” (Cristina Costanzo).
works/opere
works/opere“…Dove stiamo andando?”
.............L’installazione di Massimo Palumbo si inserisce coerentemente nella poetica dell’artista/architetto, per molti versi assimilabile all’Arte Povera, volta a dialogare con la società attraverso un linguaggio formale composto da materiali semplici, comuni, quali, in questo caso, il ferro e la gomma. “…Dove stiamo andando?” è una domanda tanto fondamentale quanto universale, un interrogativo che nei momenti di crisi –ma non solo- ognuno si pone. Le risposte possono essere molteplici , le possibilità innumerevoli e flessibili, così come è flessibile il materiale gommoso di cui è composta parte dell’installazione. I grovigli di gomma implicano la potenzialità di percorrere strade diverse, di assumere forme differenti, dipendenti dalle scelte individuali; denotano un’apertura e uno sguardo attento e consapevole rivolto all’attuale periodo storico e sociale, che sempre più spesso viene definito, non a caso, critico. La riflessione sul presente e il dialogo che ne deriva sottintende la capacità di prospettare ciò che avverrà, e soprattutto la difficoltà di prefigurare un determinato tipo di futuro. La flessibilità della gomma e le distinte forme che questa può assumere ci pone di fronte all’incertezza attualmente dilagante, indica la possibilità che potrebbe accadere qualcosa che non vorremmo, come l’avvitamento su noi stessi suggerito dalla treccia di ferro, materiale duro, rigido, impossibile da indirizzare, al contrario della gomma, treccia che simboleggia chiusura mentale, assenza di comunicazione, isolamento e individualismo imperanti.
Laura Cianfarani
works/ opere
works/ opere
“Pensiamo di essere gli unici a parlare, ma io sono convinto che ci sia uno scambio: i luoghi ci danno energia, sensazioni, ricordi, creano situazioni in cui possiamo lavorare, rilassarci, sentirci bene o male. E per come la vedo io, questa è una forma di dialogo. Le città influenzano le nostre azioni e i nostri pensieri, i nostri atteggiamenti e, persino, il nostro comportamento sociale: ci influenzano più di quanto, probabilmente, siamo disposti ad ammettere”.
Wim Wenders
Dopo il successo di “Noi che non abbiamo tetti”, Mostra che ha avuto luogo presso la Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Latina, Massimo Palumbo si ripropone con “Vivi”, Personale, a cura di Cristina Costanzo, che vede l’Artista cimentarsi con formule, strumenti e realtà dai contenuti creativamente dialettici - e proprio per questo pregni di una loro suggestiva originalità - presso i Cantieri Culturali della Zisa, un tempo sede delle famose Officine Ducrot.
C’è da dire, a tal riguardo, che da oltre un trentennio Massimo Palumbo si dedica, e non solo da un punto di vista architettonico, ai rapporti ed ai legami che intercorrono tra organizzazione sociale e midollo urbano, tra oikos ed assetti spazio-temporali, considerati, questi ultimi, sia nei loro processi sincronici che nel loro divenire diacronico. Al centro della recherche ovviamente c’è l’individuo, inteso quale componente imprescindibile dei vari assetti socio-culturali e, conseguentemente, il cittadino che diventa così il fruitore ed, al contempo, il “testimone” di loci e di installazioni, di nicchie e di performances, di riflessione critica e di consapevole partecipazione interpretativa.
Uno degli scopi primari di Massimo Palumbo è, peraltro, quello di abbattere steccati, valli e recinti che in effetti imprigionerebbero la civitas in un’oscura ed asfittica medioevalità di ritorno, pur concedendo poco, in tale operazione, ad un’invisibilità o ad una transustanzializzazione metaforica di stampo, ad esempio, calviniano; così è ne La fiamma del carabiniere, opera realizzata a Latina in onore delle vittime di Nassyria.
Ritornando a “Vivi” si può dire che tale Personale rappresenti quasi una sfida per l’Artista, volto com’è ad esplorare le stesse condizioni esistenziali dell’ uomo. E gli interrogativi non sono meno inquietanti di quelli proposti, ad esempio, da un Sartre, di un Ungaretti - a cui per molti versi il Nostro è assimilabile - o dallo stesso Virgilio allorché descrive, nell’Eneide, l’angosciante “arborificazione” di Polidoro, figlio di Priamo. Chi siamo? Qual è il nostro destino, ma, soprattutto perché viviamo? Queste sono le domande che si pone Palumbo e le cui risposte sono di fatto “fornite” da un excursus che va da Il caldo vento del ’68 ( il passato dei padri) a I Bianchi, work in progress (in cui, in seno alla bidimensionalità del quadrato, irrompono sinergicamente moduli e stilemi tratti dall’ esistere quotidiano) e via via Polvere, Calips, Paesaggio in verticale, Dimenticare Sarajevo etc.
La visione integrale e, saremmo tentati di dire, olistica - pur nella sua“specificità topologica” - dell’Artista la troviamo anche in altre due opere, vale a dire: Il dardo viola, realizzata nel Parco Ranghiasci in occasione della “XXV Biennale di Scultura di Gubbio” del 2008 e Un naufragio ci salverà, un’ originale installazione presentata nel 1995 in una chiesa sconsacrata di Sermoneta. Del 1992 è, invece, La scacchiera, una creatio dalla coinvolgente geometria minimalistica prodotta per Casacalenda ed in cui il destinatario dell’opus artistico diviene quasi parte di un processo di simbiosi deduttiva in seno all’opera stessa.
Il minimalismo del Palumbo è, altresì, il filo d’Arianna che ci fa da guida lungo il suo lungo itinerario artistico; e ciò insieme alla sua indiscussa empatia per l’Arte povera (anche a livello di design), testimoniata dall’impiego di materiali quali ferro, legno, rame, stoffa, oggetti di recupero e così via.
La Weltanschauung neo-concettualistica di Massimo Palumbo ha fatto sì, insomma, che il microcosmo, nello stesso tempo riflessivo e creativo, sfociasse nell’ermeneusi di quel macrocosmo oggettuale fatto di “prodotti” urbanistici e di inventiones architettoniche, di estetiche ambientali reinterpretate secondo una poetica dal gusto, in ogni caso, zetetico e di espressività corale non aliena da referenti politici e da suggestioni etiche. Vera pietra di paragone dell’arte palumbiana è, in sostanza, quel felice ed organico assemblamento tra Public Art ed Environment Creativity, tra teoresi, diremmo quasi noetica, e prassi “escavatrice” del manufatto urbano ed ambientale, che, appunto, in quanto vissuto e, perché no, (ri)visitato dalla presenza umana, diviene momento dialogico e di confronto ai fini di un’estetica tale da restituire al concetto di civilitas il suo autentico significato originario di “voce” della comunità!
Concludendo, quello che ci colpisce di più in “ Vivi” è la tensione morale di cui è permeata, sotto tutti i profli, l’opera del Palumbo il quale attua, in tal senso, un mirabile recupero focale e motivazionale delle radici stesse del nostro vivere. Quest’ultimo non è infatti “azione in movimento” (o solo questo) ovvero meccanicistico ed anonimo problem solving. Il “vivere” palumbiano è, al contrario, Esistenza fatta di Esperienza ed Emozioni, di Partecipazione e Solidarietà umana, di Arte e Libertà!
Marilisa Spironello
works/ opere installazioni 2016
Una semplice gruccia, appartenente alla quotidianità di ogni individuo e perciò ampliamente assimilata dalla comune cognizione conoscitiva, irrompe dallo spazio modificandolo e occupandolo prepotentemente.
Un oggetto di uso quotidiano dunque, esile e leggero, diviene enorme e potente come il messaggio sito sia nella disgiunzione frammentaria della forma originaria, sia nella de contestualizzazione dell’occasione d’uso.
E’ in questo modo che Massimo Palumbo manda in scena gli inusuali interpreti, siano essi lamiere, acciai, gessi, legni, sul grande palcoscenico della nostra epoca storica. E’ in questo modo che l’artista dona forma e vigore ai propri ideali, tramutandoli in quesiti e provocazioni, conditi da una sana satira, prerogativa indiscussa del popolo italico.
E sul palco del nostro incerto “oggi”, titubante nella lungimirante proiezione di un’ inconsistente “domani”, il Bianco, accecante nella sua purezza, di Massimo Palumbo sembra urlare, sembra implodere, mentre invoca ascolto, aiuto, soccorso.
Quindi il fare artistico assimila l’oggi storico ed epocale, lo cristallizza, lo rende visibile e vivibile, è in grado di donare sintesi e struttura corporea ad un antico concetto mentale, mai sopito: il cambiamento, l’evoluzione, che si contrappone intellettualmente alla stasi, al ristagno sociale, al’immobilità d’azione.
L’opera di Massimo è interrogazione ed affermazione insieme, sollecitazione e sarcasmo, è provocazione e stimolo, è messaggio verbale e constatazione materiale, è logica e semiotica, è una finestra socchiusa sul nostro vissuto e spalancata sul nostro vivere, non è una visione ideologica utopistica, non muove dall’esigenza di dover inventare un nuovo sistema, muove altresì dal reale bisogno di (ri)compattare e dare nuova linfa alle radicate convenzioni di un popolo, e perciò è quanto di più concreto l’arte concettuale del giovane terzo millennio possa offrire ad una sociologia ormai antica e logora.
Una semplice gruccia, elevazione allegorica di una frantumazione ideologica, è quanto di più esemplare l’arte contemporanea possa elaborare e restituire alla sensibile attenzione di coloro che, andando oltre, riescano a misurarsi e ad identificarsi in ogni singolo elemento di una tale alienante disgregazione.
Francesca Piovan
works/opere 2016
"Cambio di
stagione a quando ?"
.....La tua opera mi ha meravigliato non poco. Appariva come una
presenza sospesa e senza tempo.
Percepivo solo un
senso di profondo, etereo spazio vuoto che sembrava ,infinito, anche se
delimitato dal candore delle pareti che lo ampliavano fino a farlo
diventare inafferrabile, senza confini.....
Maria Bellante
venerdì 24 febbraio 2012
la scacchiera
La Scacchiera,
1992
Massimo
Palumbo è l’anima e il cuore di Kalenarte, giunta oggi alla sua ventesima
edizione grazie all’impegno profuso nella sperimentazione e nel tentativo
(ampiamente riuscito) di coinvolgere artisti nazionali ed internazionali in
questo “folle” progetto.
Affermato
architetto a Latina, città in cui tuttora vive e lavora, è nato a Casacalenda
nel 1946.
Il
suo ambito di ricerca, a partire dal periodo della sua collaborazione alla
Cattedra di Composizione Architettonica presso l’Università La Sapienza di
Roma, è sempre stato il rapporto tra arte, architettura e ambiente, indagato
nei suoi molteplici e complessi aspetti.
La
consapevolezza della funzione etica dell’architettura (con le sue implicazioni
politico-sociali), per Massimo Palumbo ha come degno compimento la fruizione
pubblica dell’arte nello spazio urbano. Del resto, all’Università è stato
allievo sia di Maurizio Sacripanti, che spesso invitava scultori come Gastone
Novelli o Achille Perilli durante le sue lezioni, sia di Bruno Zevi, da cui ha
certamente ereditato la necessità che l'esperienza dello spazio architettonico
si prolunghi nello spazio urbano, nei vicoli e nelle piazze, per le strade.
A
tutto questo certamente bisognerà aggiungere il fervore che ruotava attorno
alla città di Latina, esperimento d’architettura futurista nell’ambito del
programma fascista di bonifica dell’Agro Pontino. E con uno dei maggiori
progettisti di edifici pubblici della prima metà del ‘900, come fu Angiolo
Mazzoni, il giovane architetto Massimo Palumbo ha stretto un rapporto di
amicizia nutrito da stima reciproca, come documentato anche dal carteggio tra i
due, conservato nell’Archivio Mazzoni presso il MART di Rovereto.
Tutte
queste sollecitazioni gli consentono di mescolare agilmente linguaggi e
materiali diversi, pur mantenendo sempre una leggerezza, soprattutto
nell’utilizzo plastico-figurativo di materiali semplici, come pietra, mattone e
ferro, grazie alla consapevolezza che lo spazio, da qualunque punto di vista lo
si studi, è sempre prima di tutto spazio della memoria.
Proprio
alla sua memoria Massimo Palumbo ricorre quando pensa alla realizzazione di un
Museo a cielo aperto nel paese e nei
dintorni di Casacalenda, in cui si possa concretizzare la dialettica tra
architettura, arte e ambiente circostante.
In
questo progetto si fondono anche la teoria e la pratica artistica, l’attività
del teorico-curatore e dell’architetto-designer, come del resto Palumbo si
andava affermando dalla fine degli anni Ottanta.
Il
suo contributo di artista al Museo all’Aperto è un omaggio al raffinato e
silenzioso scultore originario di Casacalenda, Franco Libertucci, scomparso nel
2002.
Il
riferimento all’ultima produzione di Libertucci diventa una scacchiera, realizzata nel 1992 per
piazza Pertini. Un intervento minimalista, semplicemente bicromo, che si
inserisce armonicamente nello slargo antistante il palazzo del Comune, fornendo
anche un secondo accesso all’edificio; nello stesso tempo, però, essendo un
piano inclinato fatto di pietra locale e ferro, elegantemente si lascia notare,
perchè non asseconda il pendio del terreno.
La scacchiera diventa un passaggio
cruciale, su cui le pedine si possono muovere secondo traiettorie differenti,
pur essendo tutte consapevoli di vivere una condizione di precario equilibrio.
Lorenza Cariello
Critico,Storico dell'Arte
Scacchiera, 1992
installazione ferro,
pietra.
MAACK
MAACK
Kalenarte Museo all’Aperto d’Arte Contemporanea di Casacalenda
Piazza Sandro Pertini
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lunedì 20 febbraio 2012
la fiamma
“ … la fiamma del carabiniere…”
… L’intervento è minimale e rispettoso dell’impianto urbanistico di fondazione.
L’isola, è sottolineata da un cordolo sagomato in travertino, rafforzato lungo tutto il perimetro da una lastra, ancora in travertino, con funzione di raccordo con l’asfalto della sede stradale. Sulla sommità un semplice prato verde accog quello che l’autore, Massimo Palumbo, definisce un segno urbano. Si tratta di due sagome sovrapposte e lievemente inclinate rispetto al piano di posa, una in acciaio corten e l’altra in acciaio inox, che raggiungono in altezza le dimensioni di 3 metri
Le sagome evocano un simbolo ben noto e riconoscibile, la fiamma del carabiniere ….…
…Proiettata nella città, la fiamma supera la referenzialità all’oggetto, essere simbolo dell’Arma, bloccata nella divisa, per ritornare ad essere l’espressione di un sentimento, in questo caso di riconoscimento per quegli uomini, figli del popolo, della città, che bruciano le loro vite nel servizio ….…
Così Massimo Palumbo con il materiale della tradizione, il travertino tipico del periodo di fondazione di Latina, il materiale della natura, il prato verde ed il materiale dell’innovazione e della forza efficiente e di molte espressioni artistiche contemporanee, l’acciaio, si confronta con il tema del “monumento”.
Si tratta di un tema contraddittorio per l’arte contemporanea e per molti aspetti imbarazzante, bandito per anni, perché non si tratta soltanto di un’arte fine a se stessa ma di un’arte che deve confrontarsi con un contenuto ufficiale, entro certi limiti con criteri di leggibilità e riconoscibilità, e con tutta una tradizione. Si tratta poi di un elemento destinato a durare nel tempo.
Bene ha fatto Massimo Palumbo ad accettare questo confronto e ad esporsi in tal modo in pubblico, consapevole da architetto-artista quale è, che ogni monumento è essenzialmente un segno che, nel riassumere un luogo, lo qualifica come spazio, momento di sintesi della qualità urbana ….
Teresa Zambrotta Critico, storico dell’arte.
Latina giugno 2004
foto by Annamaria De Luca
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