10.12.2015
oggi mio figlio mi ha girato questo link.
difficile trovare argomenti ...per
La generazione perduta dei nati in Italia negli anni ‘70 e ‘80
Vivo all’estero e
non è mai facile spiegare come mai i giovani italiani senza diritti,
lavoro, opportunità, solidarietà intergenerazionale non abbiano fatto
ancora una rivoluzione. La risposta semplicistica che do comunemente è
che quelli come me nati negli anni settanta e ottanta hanno scelto due
vie: adeguarsi a una società basata sulle raccomandazioni, la precarietà
giovanile, il nepotismo, le corporazioni, il familismo amorale oppure
andare via. Io sono andato via.
Ho la sensazione che i miei coetanei abbiano ancora poco chiaro che
non è normale che i giovani in Italia non abbiano un sussidio di
disoccupazione, nessuna garanzie per la pensione, nessuna meritocrazia,
nessun supporto all’acquisto della prima casa, nessun assegno familare
per sostenere la natalità, nessuna rappresentanza sindacale per
lavoratori a contratto e disoccupati di piccole imprese. I giovani
italiani tollerano, come fosse una situazione naturale, una violenta
esclusione nel mondo del lavoro, nella politica, nell’università e una
atroce disparità intergenerazionale. I giovani vivono in una società che
non è la loro ma quella dei loro genitori. Privi di punti di contatto
con un mondo reale che è loro estraneo, non hanno alcuna forza
antagonista, vivono nella società come in famiglia, come il gatto di
casa: a proprio agio, ma senza voce in capitolo. Manca la dialettica tra
loro e la società, e questo produce falsi miti. Gli attacchi
populistici da destra a sinistra — anche da parte di autolesionisti
giovani — alle riforme Fornero, che hanno cercato di riequilibrare la
società italiana a favore dei giovani, sono sintomatici.
Nella sclerotizzata società italiana
l’assenza di massa di un’intera generazione dal lavoro sta modificando
la struttura del modello sociale in modo devastante. La cultura,
l’industria, l’imprenditoria mancano di innovazione e giovani non
sviluppano la carica antagonista che sempre ha fatto da propellente sul
costume, sulla cultura e sulla stessa politica del nostro come degli
altri paesi. Il “parricidio” e l’allontanamento dalle famiglie di
origine è un passo fondamentale per la crescita di un individuo. I
giovani italiani rimangono in vari modi ancora legati alla paghetta
settimanale in una società neomediovale dove la fluidità interclassista è
praticamente inesistente.
I giovani italiani
— con smartphone e jeans firmato — hanno certamente una condizione di
vita migliore dei giovani di trent’anni fa, i loro genitori. Altrettanto
certo però è che la loro visione del futuro è nettamente peggiore, e
più oscura. Non fanno figli, si sposano tardissimo, non si comprano la
casa. Le speranze di costruire piani di vita credibili si sono ridotte:
quello che si percepisce è un regresso generalizzato nelle condizioni di
vita dei giovani. Le prospettive dei giovani sono più incerte di quelle
che avevano i loro genitori alla stessa età. Colpa delle famiglie e del
malfunzionamento dell’economia. Il problema è profondo e la soluzione è
complessa: occorre rivitalizzare la società affrontando due problemi,
quello delle competenze da valorizzare e utilizzare da un lato, e
dall’altro quello di una società corporativa da sradicare. Tra dieci
anni tre quarti dei giovani, che a quel punto non saranno nemmeno più
giovani, si saranno trasformati in un’enorme, indistinta generazione di
sfigati probabilmente sovvenzionati dallo Stato, in un nuovo tipo di
Stato assistenziale e plebiscitario.
Le generazioni dei nostri padri hanno
condannato i figli a un precario presente e a uninesistendte futuro
attraverso il debito pubblico. Per costruire risparmio privato e
alimentare una spesa pubblica folle, ha costruito uno stock di debito
pubblico smisurato, zavorra per qualsiasi ipotesi di investimento
produttivo. Nel 1963 il debito pubblico italiano era pari al 32.6% del
prodotto interno lordo. Oggi è pari a 2138 miliardi di euro, oltre il
121% del Pil (dati Banca d’Italia). Sette anni fa, nel 2005, era pari a
1512 miliardi di euro: il 105% del Pil. In soli sette anni, 526 miliardi
in più di debito. A seconda di come chiuderà l’anno l’Italia avrà
comunque pagato solo per interessi sul debito tra i 90 e gli 100
miliardi di euro. Questa spesa annuale, sommata allo stock infinito del
debito pubblico italiano, sono la palla al piede di qualsiasi ipotesi di
politica nazionale di sviluppo, ricerca, innovazione. Se non avessimo
questa dimensione incontrollata del debito pubblico avremmo i soldi per
la ricerca, la scuola, l’università, le famiglie. La sommatoria perversa
di mancati introiti fiscali per un’evasione fiscale calcolata
certamente oltre i 100 miliardi di euro l’anno e una spesa per interessi
sul debito di 100 miliardi, ovviamente impedisce qualsiasi ipotesi di
investimento produttivo. Per questo dramma c’è una responsabilità e
ricade tutta sui nostri padri. Come si è formato questo immenso stock di
debito pubblico? Perché classi dirigenti anziane e per niente
interessate alle condizioni delle generazioni più giovani, hanno
costruito su una politica di spesa dissennata le condizioni del loro
consenso.
I nostri genitori,
anziché chiedere rigore nei conti, hanno votato quelle classi dirigenti
e le hanno tenute al governo, acquistando i titoli di Stato che
pagavano interessi favolosi e zavorravano ancora di più il futuro del
paese, costruendo attraverso le cedole di quei Bot, Btp, Cct il proprio
gruzzolo di risparmio privato. Perché si dice sempre questo: è vero che
l’Italia ha di gran lunga il peggior dato in termini di debito pubblico,
ma ha tanto risparmio privato, che fa da ammortizzatore sociale. Ma in
mano di chi è quel risparmio privato? Lo gestiscono i padri o i figli? I
padri si sono comprati le case di proprietà, con tutto quell’attivo
circolante l’inflazione ha galoppato, i prezzi delle case si sono
impennati. Quali sono le generazioni che detengono il patrimonio
immobiliare del paese e quali sono quelle che non possono neanche
trovarsi una stanza in affitto per studiare fuori sede perché la fanno
pagare uno sproposito? Tutte conseguenze del dramma del debito pubblico.
Durante le recessioni la disoccupazione aumenta
di più per i giovani che nelle altre fasce di età. Questo avviene
perché i datori di lavoro bloccano le assunzioni restringendo ogni
canale di ingresso nel mercato del lavoro. Ma nella media dei paesi Ocse
la disoccupazione giovanile è arrivata in questa crisi a essere al
massimo il doppio di quella per il resto della popolazione. In Italia
invece è quasi cinque volte più elevata. Viaggia in direzione del 35% a
livello nazionale e del 50% nel sud Italia ormai da parecchi mesi. Il
punto è che non è stata solo la crisi a privare i giovani delle loro
legittime aspirazioni a un lavoro, un reddito dignitoso, un posto nella
società. L’emergenza italiana affonda le sue radici in un mercato del
lavoro strutturalmente caratterizzato da bassi tassi di occupazione,
specie per le donne e i giovani, così come da molteplici dualismi di
genere, generazionali e territoriali. Le riforme realizzate nell’arco di
più legislature hanno introdotto nel mercato del lavoro italiano
importanti elementi di flessibilità, in particolare attraverso le nuove
tipologie contrattuali atipiche, senza però che queste fossero corredate
dai diritti e dalle tutele sociali che invece configurano la
flexsecurity di stampo europeo. L’uso distorto dei contratti atipici ha
permesso una “fuga dal costo del lavoro e dai diritti”, come illusoria
scorciatoia per la competitività, in alternativa a quella, di più alto
profilo e durata, sorretta da maggiori investimenti nell’innovazione.
Le varie leggi di riforma
hanno creato negli ultimi quindici anni in Italia un mercato “duale”.
Da un lato i tutelati, con diritto al mantenimento del posto di lavoro,
allo stipendio e alla pensione. Dall’altro i giovani: precari, spesso
sottoccupati, sottopagati, con le prospettive di una vecchiaia
miserabile. Non può esservi spazio per i giovani in questo sistema. I
lavoratori già assunti e protetti da sindacati sono per molti versi
“intoccabili”. Lariforma del ministro del Welfare Elsa Fornero, che
aveva garantito “Più articolo 18 per tutti”, era molto ambiziosa.
Partiva dall’idea di non essere contrattata dalle parti sociali per
poter favorire chi non era seduto al tavolo della trattativa, mentre in
realtà poi è stata contrattata eccome e c’è veramente poco di innovativo
per favorire l’inserimento dei giovani nel mondo del lavoro.
Se guardiamo le statistiche
vediamo che durante tutto l’arco della crisi il numero di posti persi è
relativamente basso rispetto ad altri Paesi, perché in realtà la tutela
dei sindacati è stata per chi è già lavoratore a ulteriore discapito di
chi non lo è ancora. Negli ultimi vent’anni i contratti nazionali dei
lavoratori sono stati siglati da sindacati in modo tale da garantire lo
status quo ai lavoratori esistenti a tempo indeterminato a scapito dei
giovani e dei disoccupati che, senza loro rappresentanti nella
concertazione, sono stati abbandonati alla precarietà e allo
sfruttamento. Per tenere alti i livelli salariali dei già tutelati
sindacati e politici hanno abbassato i livelli salariali di ingresso e i
meccanismi di crescita dello stipendio per i neoassunti.
Abbiamo affrontato la crisi salvaguardando il più possibile i posti di lavoro, ma questo ha avuto come conseguenza quella di alzare un muro di fronte alle generazioni più giovani.
Perché
la cassa integrazione blocca posti, tutela gli esistenti ma non ne crea
di nuovi. E se il salvagente della cassa viene utilizzato a lungo, per
molti anni, la porta girevole del lavoro si inceppa, intere generazioni
rischiano di rimanere bloccate nel meccanismo.
Il salario medio in Italia
è pari a 14.700 euro netti (fonte Eurispes). In Corea del Sud e Irlanda
si guadagna mediamente il doppio, in Francia, Stati Uniti e Germania
crica il 50% in più. C’è poi un cuneo fiscale del 46.5% che fa sì che il
lavoratore incassi il 53.5 di quello che il datore di lavoro
effettivamente paga per assumerlo. Con questa premessa andiamo ora a
studiare i valori lordi per classi di età così come riportati dal Sole
24 Ore. Un operaio trentenne prende mediamente 21.332 euro lordi l’anno.
Un operaio cinquantenne ne prende 30.555, quasi il cinquanta per cento
in più. Disparità ancora più evidente: un operaio appena assunto con
meno di ventiquattro anni di età prende mediamente 19.217 euro lordi
l’anno; un operaio cinqantacinquenne 31.873 euro, poco meno del sessanta
per cento in più. Queste politiche salariali sono riprodotte con
dimensioni analoghe in qualsiasi livello e in qualsiasi comparto.
Persino tra i dirigenti di fascia molto alta nelle aziende un
quarantenne brillante può sperare di portare a casa mediamente 99.746
euro lordi l’anno, il suo pari grado ultrasessantenne e forse un po’
stanco ne porta mediamente a casa 130.367. Secondo i dati della Cgil
sarebbero 8 milioni i precari in Italia (compresi quattro milioni di
lavoratori in nero), in massima parte under 40 con un salario medio
inferiore ai mille euro e senza diritti. Non sarebbe più ragionevole,
visti i rischi assunti da un lavoratore che accetta la flessibilità del
mercato del lavoro, pagare di più i precari e di meno chi ha più
garanzie e certezze sul proprio futuro come capita in tutta Europa?
Grande parte dei falsi miti riguardano
le pensioni e innnalzamento dell’età pensionabile. Prima del 1995 delle
scriteriate politiche che poi hanno portato alla dilatazione del debito
pubblico permettevano di andare in pensione con criteri a dir poco
generosi. C’erano persone andate in trattamento di quiescenza prima dei
quarant’anni di età perché nei favolosi Anni Ottanta bastava aver
versato quindici anni, sei mesi e un giorno di contributi per aver
diritto a pensione. Pensioni che si sono rivalutate negli anni a ritmo
di inflazione fino ad arrivare a costare attualmente allo Stato 240
miliardi di euro all’anno, il 15.6% del prodotto interno lordo (dati
Istat). La riforma Dini del 1995 decise, sostanzialmente, che i nostri
padri (cioè coloro che avevano versato almeno diciotto anni di
contributi) continuassero ad andare in pensione con i vecchi criteri e
il metodo retributivo, ottenendo così una pensione che nei fatti è pari a
più del novanta per cento dell’ultima retribuzione. Gli altri, i più
giovani, sarebbero andati in pensione con il metodo contributivo,
calcolato dunque sui contributi effettivamente versati. Ora, la
sommatoria dei fattori della precarietà dei posti di lavoro e di
politiche salariali basse, fa sì che i contributi versati siano poca
cosa e una recente stima del Corriere della Sera prevede che la pensione
media di un under 40 di oggi sarà pari al 36% dell’ultima retribuzione e
ammontante comunque ad un importo inferiore rispetto ai 540 euro della
pensione minima sociale.
Calcoli fatti dal Center of Research di Pittsburgh
sui sistemi di welfare occidentale affermano che la pensione media di
un italiano nato negli anni Ottanta sarà pari a 340 euro mensili. Per
integrare questa miseria sono stati invitati i giovani lavoratori
italiani a versare il proprio tfr presso fondi di previdenza
integrativa. il risultato finale è che oggi i nostri padri possono
andare in pensione a sessant’anni, con il novanta per cento dell’ultima
retribuzione e il tfr in tasca. Chi è nato dopo il 1 gennaio 1970 andrà
in pensione a settant’anni, con il 36% dell’ultima retribuzione e senza
il tfr. A questa ingiustizia colossale si lega quella dell’importo delle
pensioni. Intanto diciamo subito che, secondo i dati Istat, vengono
erogati ogni mese oltre 23 milioni di trattamenti previdenziali. Alcuni
italiani percepiscono anche più di una pensione. Ebbene,
il 27.4% delle pensioni ha un valore superiore ai 1.500 euro mensili e
il 13.7% superiore ai 2.000 euro mensili. Insomma, lo Stato eroga circa
sei milioni di pensioni superiori almeno del 50% al salario medio di
otto milioni di precari.
Per continuare a pagare trattamenti
di quiescenza senza pari al mondo per quantità e età pensionabile, la
generazione dei nostri padri tolto ogni ipotesi umanamente accettabile
di tutela previdenziale alle mezza Italia degli under 40. I padri, per
stare bene loro, hanno depredato i loro figli. La recente riforma delle
pensioni e l’innalzamento della età pensionabile è stata una soluzione
positiva e indispensabile per parificare doveri e diritti
intergenerazionali e risolvere nell’immediato l’emergenza, ma non basta.
La politica, come il sindacato, ha spesso assecondato, per mero calcolo
elettorale, l’egoismo degli anziani. Per esempio, tra gli iscritti alla
Cgil sono i pensionati quelli numericamente più consistenti: la loro
forza d’urto, in caso di votazioni, supera quella di ogni altra
categoria. Come si può pensare che i giovani vogliano ancora iscriversi a
un sindacato?
Da sempre in alcune professioni la
successione e il ricambio sono garantiti dalla famiglia: il notaio
lascerà lo studio al figlio, il taxista gli lascerà la licenza. Se però
oltre a questi anche tutti gli altri posti di lavoro si ostruiscono, chi
non è figlio di nessuno dove va? Per facilitare l’ingresso delle nuove
generazioni nel mercato del lavoro occorre smontare gli attuali
meccanismi di cooptazione. Se per le aziende fosse più economico
assumere i giovani, lo farebbero di più? Probabilmente sì, garantendosi
la possibilità di avere dei quadri nativi digitali, nuova linfa vitale.
Che da dieci anni a questa parte non c’è più.
Non siamo in grado di riconoscere le competenze perché il mercato non funziona: nelle società funzionanti è il mercato che riconosce la professionalità.
In un Paese con oltre due milioni di disoccupati “ufficiali”,
e 2,7 milioni di “scoraggiati” (di persone cioè che non hanno un
lavoro, ma hanno rinunciato a cercarlo, scoraggiati dalle difficoltà) a
favorire le difficoltà di incontro tra domanda e offerta di lavoro
contribuiscono l’inesistenza di un valido sistema di Agenzie
dell’impiego (da un’indagine Istat risulta che solo il 5% degli italiani
trova lavoro attraverso le agenzie, mentre il 55% lo trova attraverso
amici e parenti), la frammentazione dei possibili datori di lavoro in
una miriade di imprese piccole e piccolissime, ma anche la mancanza di
qualifiche adeguate da parte degli aspiranti lavoratori. La
meritocrazia, a scuola e all’università, dovrebbe essere valorizzata
molto più di adesso. Oggi chi esce con un voto alto non ha nessun
vantaggio rispetto chi esce con un voto meno alto ma con un patrimonio
di contatti e amicizie.
L’età media
dei nostri docenti, politici e dirigenti è tra le più alte del mondo
occidentale. Il gap retributivo tra giovani e anziani è in continuo
aumento, mentre la possibilità di fare un salto rispetto alle condizioni
socioeconomiche dei genitori è sempre più bassa. D’altronde con una
disoccupazione che supera il 30% le possibilità di riscatto sono molto
ridotte. Questa esclusione sistemica dei giovani ha radici culturali,
esacerbate certo dalla crisi, ma ben più antiche. Esiste una vera e
propria corporazione generazionale che è decisamente più forte nelle
istituzioni accademiche e politiche, ma anche nelle grandi professioni e
nei centri del potere culturale. Esiste un meccanismo di cooptazione
inventato e consolidato dalla generazione del Sessantotto, proprio
quella che ha fatto la rivoluzione contro i poteri costituiti. Le
relazioni sono tutte impostate sull’omologazione e sul riconoscimento
reciproco. Questo discorso certo vale soprattutto per i posti apicali,
ma è ovvio che anche questi vadano liberati, per sbloccare il ricambio
generazionale anche ai gradini inferiori della scala gerarchica.
È un problema di asfissia culturale. I
cattivi maestri, e gli pseudo maestri, ci sono sempre stati. Poi però
si cresceva e si faceva a pugni con il sapere acquisito dai padri. I
giovani di oggi non hanno gli strumenti per farlo, e si appiattiscono
sulle idee dei vecchi. Temono l’incertezza, più che in passato, sono
terrorizzati dai rischi che il cambiamento porta con sé. Se l’Italia
fosse un paese forte, cosciente e solidale si occuperebbe di loro, e
quindi del suo stesso futuro. Sempre che non sia troppo tardi. Le
generazione dei nati negli anni settanta e ottanta ormai sono perdute,
ma forse non è ancora troppo tardi per i nati negli anni novanta e negli
anno zero.
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