mercoledì 29 febbraio 2012

diario















pillola

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...dovè la città, quale il tessuto urbano....sensazione di straniamento: dove siamo!??

martedì 28 febbraio 2012

salviamo il borgo di acciarella a latina


                                                       foto by.Paolo Favoriti


."...........Salviamo il borgo di Acciarella a Latina e difendiamo un lembo di territorio ancora di pregio dell'Agro Pontino a ridosso del litorale.
L'insensata scelta di lottizzazione per 33.000 metri cubi, approvata dal Sindaco Di Giorgi e dalla giunta municipale, che prevede la realizzazione di un complesso residenziale di villette per 22.000 metri cubi, è un nuovo stupro al nostro territorio.
Atto sconsiderato, che se attuato, distruggerà un paesaggio di valore, a dimostrazione dell'arretratezza della cultura di governo del territorio da parte di questa classe politica, che ancora crede nel mattone come unica via di sviluppo.
Non possiamo consentire tale scempio urbanistico....."  

(.....stralcio del comunicato stampa a firma  Antonella Desiree Pelusi, Maurizio Guercio e Tommaso Iacoacci a nome del movimento 'salviamo il paesaggio, difendiamo i territori'....)

cambio di stagione .....quando


 

 
E’ da ieri pomeriggio in mostra presso la Galleria Opera Unica di Roma, l’installazione di Massimo Palumbo “….cambio di stagione A quando?!”. Resterà in esposizione fino alle 23.30 di mercoledì 9 novembre.
L’auspicio ad un cambiamento sociale percepito come necessario se non indispensabile è espresso dall’architetto-artista in maniera provocatoria ed ironica, attraverso l’utilizzo di un insieme di stampelle, materiali di uso quotidiano. E’ da una riflessione su questi materiali che si compone l’installazione. L’arte entra in stretto contatto con la società, da cui scaturisce e con cui interagisce facendosi portavoce di un messaggio di rinnovamento, rinnovamento raggiungibile proprio attraverso il linguaggio artistico, espresso da Palumbo con materiali poveri assemblati tra loro, “(…) in una ricerca raffinata e sperimentale assimilabile alla riflessione sviluppata nell’ambito di correnti come l’Arte Povera e il Minimalismo (…)” (Cristina Costanzo, storica e critica d’arte).
L’utilizzo di materiali poveri è una costante nella poetica artistica di Massimo Palumbo, che scaturisce da un discorso etico volto ad una critica alla società odierna basata sul consumo di massa: ad un mondo che quotidianamente ci spinge a comprare oggetti destinati a diventare presto obsoleti e ad essere dimenticati e gettati, Palumbo risponde recuperandoli e assemblandoli, rinobilitandoli per conferire nuova vita anche da cose apparentemente distrutte, perché “nulla si distrugge”. Anche la scelta del bianco riflette una volontà critica e la ricerca di un’alternativa ad una società sempre più prepotente e chiassosa, a cui Palumbo risponde eliminando tutto ciò che è superfluo.
“Demolire per ricostruire”, assunto basilare della filosofia postmoderna: Palumbo vuole esprimere la necessità di togliere, di levare, al fine di raggiungere l’essenzialità. Essenzialità che ha un fine etico, non meramente estetico, in un mutuo dialogo tra arte e società: tutto deve avere un senso, trasmettere un messaggio che consenta una crescita collettiva. Il rapporto tra arte e società e l’esigenza di conferire un senso si riflette anche nell’ambito delle installazioni urbane di Massimo Palumbo, come “La fiamma del carabiniere”, monumento in Piazza della Libertà a Latina dedicato ai caduti di Nassyria. Il fatto che l’opera sia piegata è funzionale al significato che Palumbo vuole trasmettere: sottolineare cioè che dietro una divisa militare c’è prima di tutto un essere umano, cosa che l’umanità tende a dimenticare. La predilezione di Palumbo per le diagonali, per il decentramento, sia in opere su scala grande che in lavori di dimensioni minori, nasce da un desiderio di antimonumentalità da parte dell’artista. (Laura Cianfarani)
Francesca Piovan, critica e storica dell’arte si esprime coì sull’opera di Palumbo: “Una semplice gruccia, appartenente alla quotidianità di ogni individuo e perciò ampliamente assimilata dalla comune cognizione conoscitiva, irrompe dallo spazio modificandolo e occupandolo prepotentemente. Un oggetto di uso quotidiano dunque, esile e leggero, diviene enorme e potente come il messaggio sito sia nella disgiunzione frammentaria della forma originaria, sia nella de contestualizzazione dell’occasione d’uso. È in questo modo che Massimo Palumbo manda in scena gli inusuali interpreti, siano essi lamiere, acciai, gessi, legni, sul grande palcoscenico della nostra epoca storica. L’artista dona forma e vigore ai propri ideali, tramutandoli in quesiti e provocazioni, conditi da una sana satira, prerogativa indiscussa del popoloitalico. E sul palco del nostro incerto “oggi”, titubante nella lungimirante proiezione di un’ inconsistente “domani”, il Bianco, accecante nella sua purezza, di Massimo Palumbo sembra urlare, sembra implodere, mentre invoca ascolto, aiuto, soccorso. Quindi ilfare artistico assimila l’oggi storico ed epocale, lo cristallizza, lo rende visibile e vivibile, è in grado di donare sintesi e struttura corporea ad un antico concetto mentale, mai sopito: il cambiamento, l’evoluzione, che si contrappone intellettualmente alla stasi, al ristagno sociale, al’immobilità d’azione. L’opera è interrogazione ed affermazione insieme, sollecitazione e sarcasmo, è provocazione e stimolo, è messaggio verbale e constatazione materiale, è logica e semiotica, è una finestra socchiusa sul nostro vissuto e spalancata sul nostro vivere, non è una visione ideologica utopistica, non muove dall’esigenza di dover inventare un nuovo sistema, muove altresì dal reale bisogno di (ri)compattare e dare nuova linfa alle radicate convenzioni di un popolo, eperciò è quanto di più concreto l’arte concettuale del giovane terzo millennio possa offrire ad una sociologia ormai antica e logora. Una semplice gruccia, elevazione allegorica di una frantumazione ideologica, è quanto di più esemplare l’arte contemporanea possa elaborare e restituire alla sensibile attenzione di coloro che, andando oltre, riescano a misurarsi e ad identificarsi in ogni singolo elemento di una tale alienante disgregazione”.
Massimo Palumbo nasce a Casacalenda, in Molise, nel 1946. Nel 1972 consegue la laurea in Architettura a Roma. Attualmente risiede e lavora a Latina. Dagli anni Ottanta si interessa al Design e alle Arti visive, indagando il rapporto tra arte e ambiente, inteso sia come spazio urbano che come natura. In questo contesto diviene promotore del Progetto Kalenarte, che vede la realizzazione di un Museo all’aperto d’Arte Contemporanea nella sua città natale, che opera in sinergia con la “Galleria Civica d’Arte Contemporanea Franco Libertucci” di Casacalenda. Collabora attivamente con MAD Rassegna d’arte contemporanea a cura di Fabio D’Achille, con cui ha esposto nella personale “…noi che non abbiamo tetti…” ospitata nel Teatro Comunale e nel Palazzo della Cultura di Latina. Sempre con MAD ha partecipato a MAD Procoio 2011 con le installazioni “Procoio…orto o scavo?” e “Forconi precari, precari con forconi”.
Nei prossimi giorni all’interno della Raccolta Manzù di Ardea diretta da Marcella Cossu esporrà la sua installazione “mangiamo cultura, con la cultura si mangia…”, già ospitata all’interno del foyer del Teatro Comunale Gabriele D’Annunzio di Latina, installazione composta da un nastro su cui vengono disposti vassoi con pane e libri, con cui l’artista vuole esprimere la possibilità di una crescita raggiungibile attraverso un nutrimento culturale, nonché la necessità di promuovere la cultura e di investire su di essa.




SEDE ESPOSITIVA: Galleria Opera Unica, via della Reginella 11 – Roma
VERNISSAGE: venerdì 3 novembre ore 18,30
ORARI: aperta 24 ore su 24. Fino a mercoledì 9 novembre alle 23,30.
TESTO CRITICO: Francesca Piovan
INFO: massimo.palumbo@libero.itinfo.viaprovenzale51@gmail.com
SEGNALATO DA:
MAD Rassegna d’Arte Contemporanea
e-mail: eventi@madarte.it

lunedì 27 febbraio 2012

public_art

Spazi a (dis)misura d’artista, chiacchierando di public art.  A Napoli, per i Martedì Critici, c’è Giancarlo Neri .




Giancarlo Neri, Lo scrittore, 2003-2005







Quella volta che invase via Krupp, a Capri, con centinaia di lampadine accese. O quell’altra in cui piazzò un maxi cavallo galleggiante tra le acque del golfo di Napoli, di fronte Castel dell’Ovo. Oppure quando mise in mezzo al Parco di Villa Ada, a Roma, uno scrittoio e una seggiola alte quanto un palazzo. Giancarlo Neri, protagonista del terzo appuntamento napoletano dei Martedì Critici, è uno che ama confrontarsi con la natura degli spazi, sfruttandone caratteristiche, limiti, possibilità e condizioni. Una vocazione al confronto col reale che punta al coinvolgimento –spesso ironico – dello spettatore e spinge verso la trasformazione radicale dei contesti. Più che collocare un’opera in uno spazio, Neri la utilizza come generatore di alterazioni percettive, scegliendo la via dell’arte pubblica come dimensione espressiva principale. In questa direzione vanno i suoi numerosi progetti in Italia e all’estero: da quello del Circo Massimo di Roma nel 2008, all’ultimo spettacolare intervento di Rio de Janeiro, nel gennaio 2012. Una ricerca che lo ha consacrato come uno dei più originali artisti italiani contemporanei.
28 febbraio 2012, ore 18
Palazzo delle Arti Napoli, via dei Mille 60
a cura di

Alberto Dambruoso e Marco Tonelli

pillola/architettura angiolo mazzoni

LATINA
PALAZZO DELLE POSTE 
ARCHITETTO ANGIOLO MAZZONI
                                                                                                   ph.A. D'Onofrio

domenica 26 febbraio 2012

intervista su angiolo mazzoni


Martina Zeherenthofer
Intervista Massimo Palumbo su su Angiolo Mazzoni



Martina Zeherenthofer:
la figura di Mazzoni, mi sembra sia alquanto contradittoria e confusa...o almeno questa è l' idea che mi sono fatta su di lui;

Massimo Palumbo: 
In effetti penso di poter condividere quanto dici

MZ:
non riesco a capire il suo rapporto col futurismo esaltato da Marinetti in maniera esagerata,

MP:
Esagerata era l’esaltazione di Martinetti, infatti penso che a tutt’oggi non si capisce quanto la ricerca di Mazzoni possa essere considerata con l’aggettivo futurista, tenendo presente che il percorso professionale e dei risultati sia stato quanto meno contraddittorio. È nella composizione degli stili  dal modo di intersecare gli elementi compiuti delle diverse poetiche che emerge l’aspetto più interessante ed originale della sua produzione architettonica: la secessione viennese, la scuola di Amsterdam convivono con le suggestioni di Sant’Elia, sono questi gli elementi che contribuiscono al progetto mazzoniano.
Dall’insegnamento di Gustavo Giovannoni risale la curiosità per l’architettura di Hoffman e di Olbrich. Di fronte però ai primi incarichi come tecnico delle Ferrovie dello Stato, quelle architetture della finis Austriae, quei sogni giovanili, lasceranno il posto alle austere superfici in mattoni di Berlage, di Bonatz e di Scholer. E sarà l'Hoffmann della Vienna Rossa e non del Padiglione austriaco dell'Esposizione di Roma (1911) che emergerà negli edifici postali o nelle stazioni ferroviarie.
Nel 1927 Mazzoni codifica, in un saggio su «Architettura e Arti Decorative», una serie di norme per il rinnovamento funzionale dell'edificio ferroviario, un tema le cui implicazioni di carattere estetico riguardano la necessità di costruire «un insieme armonico» di edifici, «un'unica concezione architettonica», capace di legarsi alla «natura circostante». Stoccarda e Helsingfors sono, tra l'elenco degli edifici riportati, gli esempi per lui più validi: le loro strutture verticali divise da ampie pareti vetrate rimandano alla monumentalità degli edifici industriali, che in quegli anni tanto interesse suscitano tra coloro che affermano il moderno in architettura.
Il 1 febbraio del 76 a proposito del futurismo  Mazzoni scrive……………..
1 Febbraio 1976

Nelle trasmissioni della Radio e in quelle televisive dedicate al " futurismo " non sono ricordati il mio nome i miei progetti né le mie costruzioni in cui la essenza del futurismo manifesta e ciò nonostante gli articoli di F. T. Marinetti nella " Gazzetta del Popolo" nei quali opere mie sono esaltate come manifestazioni futuriste, lo scritto del Fillia nel quale sono messe in evidenza la uguaglianza dei fini artistici del Le Corbusier e miei e la diversità del nostro modo di creare architetture, il libro di Enrico Crispolti " Il mito della macchina e altri temi del Futurismo ",  l' ironia di Ugo Ojetti sul mio progetto definitivo della stazione di Siena, il numero di " Controspazio”  dedicato al futurismo, quanto a me si riferisce nel libro del Patetta "L’architettura in Italia - 1919/1943 - Le polemiche" , l’ articolo del Severati in "L'Architettura" dell' aprile 1975 dedicato alla stazione di Siena .
Simili dimenticanze e il notare - quando in dette trasmissioni si parlava di architettura futurista - che erano citati solamente il Sant' Elia e il Chiattone mi hanno portato a dare più esatto e maggiore valore all'avere  Lionello Di Luigi, parlando delle vicende della stazione fiorentina, dimenticato che mi fu assegnato uno dei quattro secondi premi di pari merito, lo scritto di Maurizio Calvesi " Il futurista Sant' Elia” , il libro di Giovanni Klaus Koenig L’Architettura in Toscana - 1931/ 1968 " nel quale non cita le mie costruzioni in terra toscana indubitatamente futuriste per il loro impeto colmo di modernità, l'articolo del Tirincanti incluso da “ Il Messaggero" nella cronaca dell’incendio del corpo frontale di Roma Termini avvenuto nel 1967 , articolo nel quale si dice che “quel pover uomo di Mazzoni era andato a morire nel 1948 nell’ America del Sud " …………

MZ:
quello col fascismo

MP:
Era un funzionario dello stato e non poteva tirarsi indietro, la sua su un piano squisitamente professionale non era una figura di secondo piano

MZ:
e soprattutto il rapporto che aveva con gli altri architetti a lui contemporanei...

MP:
Penso, e non c’è da meravigliarsi non fosse ben visto dagli altri architetti a lui contemporanei... lui ha lavorato e lavorato molto, inoltre per certi aspetti è stato il committente di se stesso, e queste erano motivazioni che non potevano portargligli particolari simpatie…..

MZ:
in una lettera che scrisse a Bruno Zevi, riferisce di essere stato costretto ad iscriversi al Partito, ma mi sembra alquanto strano che nel 1922 una persona venisse obbligata ad iscriversi al partito fascista  (la maggior parte degli altri architetti si iscrive appena nel'36).

MP:
È questo il periodo, in cui rientrato dal Sudamerica  lavora per costruire, una sua immagine spendibile nei confronti del mondo Culturale e Accademico Italiano. Di suo pugno scrive un’autobiografia. Comincia a rimettere in ordine il puzzle dei tanti lavori, ma anche dei tanti rapporti avuti durante il ventennio ed oltre ed è  singolare pensare che sia stato costretto ad iscriversi al partito fascista.
E’ questo il momento in cui va alla ricerca di personaggi del mondo accademico italiano degli anni settanta con la speranza di una visitazione del suo lavoro ma anche di una valorizzazione. Cerca un approccio con Bruno Zevi che per quanto ne so rimase sul generico né si espose troppo, delegando ad un suo assistente, l’Architetto Carlo Severati il compito di analizzare un po’ più da vicino il lavoro di Mazzoni; everati pubblicherà su l’Architettura di Zevi alcuni articoli con foto dei lavori di Mazzoni ed in un certo senso apre per capire ed inquadrarne il lavoro.
Sempre in quegli anni Mazzoni  ebbe modo di conoscere il prof. Forti di Firenze. Forti al contrario fu il primo a sposare la causa-Mazzoni e direi senza se e senza ma. Mise in contatto Mazzoni con il Prof. Enrico Crispolti che già da diverso tempo studiava il Futurismo Italiano. Si era già interessato di Depero e frequentava il museo di Rovereto quello che trent’anni dopo diventerà il MART.
Proprio presso questo museo, Crispolti a ridosso degli anni ottanta, verso il 1978-1979 farà spostare le casse dell’archivio Mazzoni,  dalla casa di via Savoia a Roma dove Mazzoni  viveva  i suoi ultimi anni di vita in compagnia della moglie.

MZ:
Inoltre non capisco fino a che punto la sua architettura di "regime" fosse condizionata dal Partito o direttamente dal Duce,

MP:
Per quanto posso dire e per quanto lui stesso racconta e scrive nell’autobiografia redatta negli anni settanta, le opere ed i progetti erano sottoposte a pressioni di diverso tipo. Mazzoni gode comunque di una posizione di forza all’interno dell’ufficio lavori e progettazione e di conseguenza quando può tira fuori il meglio di sé. Ma la stessa cosa purtroppo sembra non essere possibile sempre, ed allora è costretto a cambiare e a proporre le soluzioni 1,2,3 ..A,B,C.  e Mazzoni con disinvoltura cambia ed adatta il progetto.!!

MZ:
Mi sembra di aver capito che, essendo un architetto che lavorava per lo Stato, aveva molto più potere rispetto agli altri architetti

MP:
Non solo aveva potere in quanto era architetto dello stato e all’epoca era di grande prestigio lavorare per l’Amministrazione Statale ma come dicevo Mazzoni godeva di posizioni (oggi diremmo…. ”conflitto d’interessi” ) che lo portavano ad essere committente di se stesso.

MZ:
E per questo motivo non era visto di buon occhio da questi ultimi.

MP:
Penso che sia stato proprio così non c’è da meravigliarsi: accadrebbe anche oggi !!.

MZ
Mi piacerebbe conoscere un suo parere su questo personaggio che è sempre stato tenuto poco in considerazione dopo la sua morte e sul quale è stato scritto molto poco a mio avviso……..

MP:
Alcune considerazioni di tipo personale credo di averle già espresse, sono considerazioni che si sono strutturate nel corso degli anni, ed in particolare dalla fine degli anni settanta ad oggi. Credo di essere più sereno e più distaccato oggi rispetto a quegli anni quando, neo laureato e giovane architetto ebbi il privilegio di conoscere il vecchio Mazzoni proprio in via Savoia a Roma.
Erano per l’appunto gli anni in cui Mazzoni sentiva un bisogno frenetico di mettere ordine alle sue carte e al suo lavoro. Era polemico e si sentiva ……..perseguitato!!
Cercava sponde utili per lasciare di se un’immagine, su un piano culturale,  il più possibile  spendibile,  in un momento in cui, superato il periodo degli anni 50-60 (in cui potevano ancora essere accesi sotto la cenere i carboni ideologici, degli strascichi fascismo-antifascismo).
Cercava forse un po’ di consenso sull’onda di un qualche interesse che cominciava a farsi largo proprio negli anni settanta tra architetti e professori di area romana su possibili riletture di opere realizzate in epoca fascista. Ed a Roma, Facoltà di Architettura, (in particolare in area di sinistra) erano diversi gli architetti che rileggevano in chiave libera da condizionamenti politici le architetture e quanto realizzato dal fascismo nell’urbanistica come nell’architettura.  
Negli anni settanta ho avuto il privilegio di conoscere di persona e documentarlo su quanto  stava accadendo a Latina, l’Architetto Angiolo Mazzoni. Lo visitai  più volte, nel suo appartamento-studio di via Savoia a Roma .
Erano quelli gli anni in cui a Latina tra la totale indifferenza dei più, dopo essere stato  semidemolito il Palazzo delle Poste (1964) si modificava  la stazione ferroviaria.
Essere testimone nel 1977 di questa nuova manomissione, fece si che  non si poteva rimanere indifferenti. Ci si attivò scrivendo e bussando ad enti, istituzioni, si informò la stampa locale e nazionale.
L’Ordine degli Architetti di Latina sollecitato dal sottoscritto, coglie l’occasione, e attraverso un documento manifesto fa…. “voti  affinchè tutte le opere inquadrabili nel contesto su accennato siano inventariate per creare i presupposti di una tradizione locale di conoscenza e rispetto......”
Questa volta si parla di “rispetto”,di “tradizioni locali” di ”storia” e si pensa di “inventariare”.
La soprintendenza per i Beni Ambientali e Architettonici del Lazio in una sua nota condivide  pienamente le motivazioni di ordine culturale, ma aggiunge  che “……….purtroppo, i compiti di istituto in applicazione dei quali tale salvaguardia può essere esercitata, non si applicano, stando alle leggi 1-6-1939 n° 1089 e 29-6-1939 n°1497, al caso presente e pertanto, non è possibile alcuna azione……..”
Altri ammettono che “…..non può non disconoscersi,  che  questo edificio come gli altri dello stesso periodo, e la stessa struttura urbana di Latina rappresentano una pagina interessante della storia che, appunto in quanto espressione di vicende dell’uomo, non può essere dimenticata……...”
Angiolo Mazzoni, sicuramente è stato progettista versatile e prolifico, accurato disegnatore di dettagli, competente nella scelta dei materiali ed efficiente nelle scelte delle tecniche esecutive, è l’artefice della produzione architettonica dell’Ufficio V, che non produce caratteri anonimi e convenzionali dell’edilizia burocratica.
Le stazioni e i Palazzi Postali realizzati in numerosi centri della provincia Italiana tra il 1925 e il 1930 recano i tratti di un eclettismo storicistico molto marcato e le opere in genere presentano un elevato standard qualitativo. Ed è sempre lui  a dare l’impronta  a quanto si produce  nel ministero.
Della personalità di Mazzoni sicuramente ci resta un’altissima lezione di professionalità nell’operare architettonico e su quanto correntemente indichiamo come cultura del progetto. La sua creatività passava per una professionalità progettuale e realizzativa di grande spessore, una sapienza operativa volumetrica, spaziale con dimostrazione continua di grande conoscenza dei materiali.
Quando ho modo di conoscerlo, vive i suoi ultimi giorni di una vita ricca  di esperienze, malato, ma molto lucido nei ricordi.
Si apre così tra il marzo e l’agosto del 1977 una fitta corrispondenza: uno spaccato  vivo sia sul piano umano che su quello professionale. E gli sfoghi di Mazzoni ci fanno capire, che gli edifici di Latina non sono né gli ultimi ne’ i soli ad essere stati toccati. E’ un problema generale di costume e di “incultura”.
Da questa corrispondenza e dagli incontri avuti di persona nasce l’idea di una mostra sui progetti realizzati in Agro Pontino.
Mazzoni accetta con entusiasmo e collabora dando indicazioni e consigli. Due anni di lavoro per un gruppo di giovani Architetti e studenti di architettura, riunitisi per l’occasione in ” Gruppo di ricerca Storica “ in una città forse troppo sorda e poco incline a guardarsi allo specchio per conoscere la propria storia e le proprie origini.
Mazzoni naturalmente incoraggia verso questo lavoro e offre la possibilità di accedere al suo archivio  oramai da alcuni anni donato su interessamento dell’architetto Alfredo Forti al Museo Depero di Rovereto ove era la sede del Museo del Futurismo Italiano. L’entusiasmo giovanile ci guidò, in una spola tra Latina e Rovereto.
Il 28 Settembre 1979 Angiolo Mazzoni muore. Un anno dopo nel maggio del 1980 nella sala conferenze del Consorzio dei Servizi Culturali  in via Oberdan a Latina si apre la mostra su “Angiolo Mazzoni Architetto 1932-1942 dieci anni di attivita’ in Agro Pontino “.
Questa fu di sicuro la prima mostra sui lavori di Mazzoni realizzata in Italia, poi verranno le altre…..più importanti, il ghiaccio era rotto e da quei giorni ad oggi in tanti si sono interessati di Mazzoni cercando di scavare tra le ambiguità.   A margine della mostra del 1980 a Latina, un convegno dibattito. Invitai e presenti gli Architetti Alfredo Forti e Carlo Severati, che in quegli anni erano gli unici in Italia oltre ad Enrico Crispolti, ad interessarsi del lavoro di Mazzoni. Ricordo che anche in quell’occasione Severati guardava Mazzoni con sospetto, Forti era più propenso a giustificare le ombre e i dubbi sulla valenza del lavoro Mazzoniano. A testimonianza di quanto fatto riuscimmo stampare un piccolo catalogo.


 MZ:
Su qualunque testo del Fascismo si parla di Piacentini, Pagano, Muzio, Persico...ma su Mazzoni quasi mai………

MP:
In effetti rappresenta una figura tra le meno ascoltate del periodo fascista. Secondo me è il prezzo che la critica architettonica gli fece pagare per l’atteggiamento ambiguo e poco chiaro: un analisi attenta dei tanti lavori ci porta purtroppo ad imbatterci a situazioni eccellenti ma anche ad episodi di dubbia valenza a discapito di una coerenza complessiva che non può essere dimenticata né sottovalutata. E poi non dimentichiamo il sospetto dei liberi professionisti, nei confronti di quelli che operano con la copertura di una struttura statale pubblica.  Oggi non è la stessa cosa?


 MZ:
Infine le chiedo un'ultima cosa: lei forse conosce qualche notizia a proposito della Stazione di Roma -Termini?

MP:
No non ne sono a conoscenza. Sicuramente come per la stazione di Trieste puoi trovare nelle pubblicazioni del Mart

MZ:
In particolare riguardo alle varianti di progetto che vennero imposte a  Mazzoni dal Duce, in seguito a dei colloqui?

MP:
No. non ne sono a conoscenza.
Naturalmente tra le risposte date a questa intervista  alcune hanno riscontri precisi, altre sono opinioni personali che ho avuto modo di maturare nel tempo.


Latina 01.02.06



PALAZZO DELLE POSTE
(1932)
LATINA
ARCHITETTO ANGIOLO MAZZONI


kalenarte museo all'aperto



IL MUSEO ALL’APERTO  
Making worlds, cioè Fare mondi, era il tema della Biennale di Venezia del 2009. Ricordare come attraverso l’arte sia possibile rinnovare il miracolo della creazione. Dare vita a ciò che non l’aveva o restituirla a ciò che l’aveva perduta. Da questo punto di vista si comprende quale sia stato l’intento di chi, vent’anni or sono, ha avuto la felice intuizione di creare un museo all’aperto nel piccolo borgo di Casacalenda. Nel 1990, l’occasione di un concorso per rinnovare l’arredo urbano è stata di stimolo per intraprendere una riflessione più complessa sui concetti di recupero, riqualificazione del territorio, creazione di modelli di riferimento, con l’auspicio di infondere e sviluppare una consapevolezza collettiva mediante le incursioni di arte contemporanea. In quel momento si è capito che ragionare sulla questione del rapporto tra Arte/Architettura e Ambiente circostante poteva essere una via da intraprendere per contribuire a migliorare la qualità della vita  Massimo Palumbo, ideatore del progetto Kalenarte, Federico Pommier Vincelli insieme a tutto il gruppo di lavoro, le Amministrazioni locali che si sono succedute nel tempo, hanno sostenuto e creduto, nonostante le difficoltà, in questa utopia. A Casacalenda da vent’anni si creano mondi. Un piccolo miracolo, tenendo presente quanto possa essere difficile per realtà così decentrate confidare, nonostante le diffidenze e la crisi economica, in un progetto culturale che non abbia riscontri immediati in termini di marketing e pubblicità, ma sia “semplicemente” progetto culturale, la cui portata, però, sembra sia stata colta nella sua potenza, da tutti, fin da subito. Un work in progress, anzi un world in progress è quello che si è creato e si continua a creare in questo borgo, inerpicato sulle colline del Molise. Un luogo non facile da raggiungere, che costringe il visitatore a conquistarlo lentamente, assecondando le sue curve e costringendolo ad osservare un paesaggio su cui quasi non c’è traccia umana: un elogio alla lentezza e al silenzio. Ed è da questo silenzio e dalla percezione rallentata che si ha dello scorrere del tempo, che sono rimasti colpiti gli artisti chiamati ad intervenire a Casacalenda. Hanno camminato per il paese, si sono persi nella campagna, hanno scelto con cura il luogo in cui lasciare il proprio segno o si sono lasciati scegliere da esso.  Hanno cercato e cercheranno ancora di interagire con lo svolgimento della vita quotidiana, ancora così profondamente legata ai cicli di Gaia, come risulta evidente anche da alcuni titoli scelti per le opere (Germinazione, Aurora, Arcobaleno, Meridiana). Hanno celebrato un passato che appartiene a tutti noi, riconoscibile in immagini archetipiche, ancestrali, che valicano i confini geografici e culturali. Basti pensare all’intervento del giapponese Hidetoshi Nagasawa (1992) in quello che era l’ex forno del paese, un omaggio all’antico fuoco di Efesto, realizzato con la grazia che ricorda molto da vicino il tratto degli ideogrammi e la leggerezza di un haiku. Dello stesso anno, anche le installazioni di Fabrizio Fabbri (Meridiana/Possibile generatore d’energia) - che fa giocare in bimbi in una sorta di piccola Stonehenge, in un “Sito del Tempo” - e di Alfredo Romano che, attraverso l’utilizzo di due elementi come la pietra locale e la pelle di pecora, nella sua opera Crepuscolare (Feritoie) riesce a narrare la vicenda di una collettività.
Ogni opera è un mondo, una storia da raccontare. La narrazione delle vicende collettive continua quando ci si imbatte in quella che doveva essere una “piazza scultura”, secondo le intenzioni dell’autore, quel raffinato scultore originario di Casacalenda, a cui in tempi recenti è stata intitolata la Galleria Civica. Franco Libertucci aveva progettato, in memoria Ai caduti (1983) di guerra, uno spazio vero e proprio, non un monumento celebrativo, un oggetto, ma una piazza da vivere quotidianamente. Purtroppo il progetto non fu capito e venne stravolto nell’esecuzione. Qualche anno dopo (1992), Massimo Palumbo ha voluto rendere omaggio all’artista che realizzava le “sculture abitabili”, installando una Scacchiera (omaggio a Franco Libertucci) nella piazza Pertini. Una scacchiera su cui muoversi liberamente, da calpestare, come il bronzeo Selciato (2001), realizzato da Michele Peri sui calchi delle antiche pietre di Casacalenda, che acquista lucentezza e splendore dall’usura.  Seguendo il percorso del Selciato, si giunge nei pressi del rosone gotico con decorazioni rinascimentali, Senza nome (1996), che Adrian Tranquilli ha incastonato nel Vico dell’Addolorata, inserendo la sua personale interpretazione dei simboli della femminilità in una strettoia molto suggestiva. Nello stesso anno, anche Claudio Palmieri venne chiamato a lasciare traccia delle sue Germinazioni, che da uno svettante nucleo centrale in ferro, si spandono come infiorescenze carnose, in un’aiuola che costeggia la passeggiata panoramica.  Il cuore della Terra Vecchia ospita anche i due più recenti interventi, realizzati su lastre metalliche nel 2009, quando il progetto Kalenarte ha ripreso le attività dopo qualche anno di pausa. Paolo Borrelli (Il Museo Sospeso - L’arresto/L’eccitante) rappresenta la ferita inferta alla comunità di Casacalenda con la sospensione del progetto culturale di Kalenarte, una ferita sanguinante, posizionata alla base della torre dell’orologio del paese.  Ilaria Loquenzi ridà invece vita ad una vecchia iscrizione, posizionando una lastra d’acciaio riflettente sul fondo della vasca de La fonte del duca, prima fontana pubblica del paese, voluta da Scipione Di Sangro nel 1645. Svoltando in una laterale del Corso Roma, si scende a valle attraverso la Cromoscala (1990) di Tonino D’Erme.  Lungo il perimetro del paese, invece, sono collocate le sculture di grandi dimensioni.
Antonio Fiacco ha posizionato la sua bianchissima Aurora (1988) sulla scalinata che conduce alla ferrovia, come fosse una porta d’accesso al paese, modellata sull’arco tipico dei vicoli della Terra Vecchia. Al capo opposto del paese un altro arco, questa volta in ferro, segna il confine tra nuclei abitati e aperta campagna, l’Arcobaleno di Carlo Lorenzetti. Sia nell’Arcobaleno che nella Meridiana 99, entrambe del 1999, Lorenzetti raggiunge l’aspirazione all’equilibrio e alla leggerezza, reinterpretando le forme della scultura classica con l’utilizzo di materiali non classici, come ferro e acciaio, in perfetta armonia con l’ambiente circostante. Concludono il percorso del Museo all’Aperto di Casacalenda due opere, dislocate in aperta campagna. Il guardiano del bosco (1994) di Andrea Colajanni, situato presso il convento di Sant’Onofrio, è un’installazione in ferro che ricorda un fascio di spighe di grano. Più lontano, in Contrada Coste, un altro mondo, quello lirico del Poeta di Casacalenda (1997). Costas Varotsos, passeggiando nelle campagne, si è inoltrato nel bosco, rimanendo  profondamente colpito dall’aura mistica, dall’energia misteriosa che emanava quel luogo. Quello era il posto giusto per un Poeta silenzioso  e meditabondo, che, come il suo gemello di Nicosia, porta un messaggio di pace e di fiducia nella capacità dell’Arte di comunicare mediante un linguaggio universale. Per volontà dell’autore non ci sono indicazioni che conducono al gigantesco poeta di pietra. Il visitatore può scoprirlo per caso o non trovarlo mai.

Lorenza Cariello
Storico dell'Arte

sabato 25 febbraio 2012

pillola


 

Che il Parco Nazionale del Circeo rimanga Parco Nazionale! Vigiliamo, c'è qualcuno che lo vuole declassare...

pillola


                                                                       collage

venerdì 24 febbraio 2012

la scacchiera


La Scacchiera,
1992
Massimo Palumbo è l’anima e il cuore di Kalenarte, giunta oggi alla sua ventesima edizione grazie all’impegno profuso nella sperimentazione e nel tentativo (ampiamente riuscito) di coinvolgere artisti nazionali ed internazionali in questo “folle” progetto.
Affermato architetto a Latina, città in cui tuttora vive e lavora, è nato a Casacalenda nel 1946.
Il suo ambito di ricerca, a partire dal periodo della sua collaborazione alla Cattedra di Composizione Architettonica presso l’Università La Sapienza di Roma, è sempre stato il rapporto tra arte, architettura e ambiente, indagato nei suoi molteplici e complessi aspetti.
La consapevolezza della funzione etica dell’architettura (con le sue implicazioni politico-sociali), per Massimo Palumbo ha come degno compimento la fruizione pubblica dell’arte nello spazio urbano. Del resto, all’Università è stato allievo sia di Maurizio Sacripanti, che spesso invitava scultori come Gastone Novelli o Achille Perilli durante le sue lezioni, sia di Bruno Zevi, da cui ha certamente ereditato la necessità che l'esperienza dello spazio architettonico si prolunghi nello spazio urbano, nei vicoli e nelle piazze, per le strade.
A tutto questo certamente bisognerà aggiungere il fervore che ruotava attorno alla città di Latina, esperimento d’architettura futurista nell’ambito del programma fascista di bonifica dell’Agro Pontino. E con uno dei maggiori progettisti di edifici pubblici della prima metà del ‘900, come fu Angiolo Mazzoni, il giovane architetto Massimo Palumbo ha stretto un rapporto di amicizia nutrito da stima reciproca, come documentato anche dal carteggio tra i due, conservato nell’Archivio Mazzoni presso il MART di Rovereto.
Tutte queste sollecitazioni gli consentono di mescolare agilmente linguaggi e materiali diversi, pur mantenendo sempre una leggerezza, soprattutto nell’utilizzo plastico-figurativo di materiali semplici, come pietra, mattone e ferro, grazie alla consapevolezza che lo spazio, da qualunque punto di vista lo si studi, è sempre prima di tutto spazio della memoria.
Proprio alla sua memoria Massimo Palumbo ricorre quando pensa alla realizzazione di un Museo a cielo aperto  nel paese e nei dintorni di Casacalenda, in cui si possa concretizzare la dialettica tra architettura, arte e ambiente circostante. 
In questo progetto si fondono anche la teoria e la pratica artistica, l’attività del teorico-curatore e dell’architetto-designer, come del resto Palumbo si andava affermando dalla fine degli anni Ottanta.
Il suo contributo di artista al Museo all’Aperto è un omaggio al raffinato e silenzioso scultore originario di Casacalenda, Franco Libertucci, scomparso nel 2002.
Il riferimento all’ultima produzione di Libertucci diventa una scacchiera, realizzata nel 1992 per piazza Pertini. Un intervento minimalista, semplicemente bicromo, che si inserisce armonicamente nello slargo antistante il palazzo del Comune, fornendo anche un secondo accesso all’edificio; nello stesso tempo, però, essendo un piano inclinato fatto di pietra locale e ferro, elegantemente si lascia notare, perchè non asseconda il pendio del terreno.
La scacchiera diventa un passaggio cruciale, su cui le pedine si possono muovere secondo traiettorie differenti, pur essendo tutte consapevoli di vivere una condizione di precario equilibrio.       
Lorenza Cariello
Critico,Storico dell'Arte
 


Scacchiera, 1992
installazione ferro, pietra.
MAACK
Kalenarte Museo all’Aperto d’Arte Contemporanea di Casacalenda
Piazza Sandro Pertini


 
 



i bianchi




..........I materiali sono poveri e di scarto: scelti a nuove funzioni, nobilitati a nuova vita. La stoffa rappresa, quasi coagulata e raggelata vuole esprimere una carica espressiva, di tensione drammatica: pretende un contatto ravvicinato, epidermico ed emotivo................, un desiderio, un obiettivo da raggiungere, una meta? Non si sa.
Per ieri come per l’oggi è un modo per azzerare simbolicamente tante cose, è il non colore che li contiene tutti, è lo spazio psicologico ove riposarsi e vedere con occhi, altri, il mondo che ci circonda...... mp.

pillola

    
                                        photo by francescanale

noi che non abbiamo tetti
















Massimo Palumbo è architetto, artista, teorico ed operatore culturale e tutto ciò anima la sua produzione incentrata su una accorta ricerca dei materiali impiegati e al tempo stesso tesa verso l’idea dell’infinito. Nel microcosmo di ciascuna delle sue opere Massimo Palumbo racchiude infatti quel macrocosmo della Natura che costantemente alimenta il suo linguaggio capace di comprendere frammenti di oggetti e porzioni di vita, e di spaziare dalla scultura alla installazione, dall’Arte Ambientale alla Public Art.
I motivi ispiratori della sua ricca produzione sono le città con la loro storia, le loro strade e le loro piazze ma soprattutto, come più volte notato nel corso della sua carriera da critici e curatori, la Natura.
Emancipandosi dai limiti territoriali è al territorio stesso ed alla città che Palumbo ama volgere il proprio sguardo perché, come sottolinea Lorenza Cariello, ha appreso da maestri come Maurizio Sacripanti e Bruno Zevi “la necessità che l’esperienza dello spazio architettonico si prolunghi nello spazio urbano” e, come affermato dall’artista stesso in occasione dell’intervento urbano La fiamma del carabiniere realizzato a Latina in memoria dei caduti di Nassyria, si rivela fondamentale “andare nella direzione di una città unitaria che rifiuta l’idea e la pratica della città dei recinti”. La ricerca estetica e l’equilibrio formale che caratterizzano i suoi interventi si caricano quindi di implicazioni politiche, sociali ed etiche. 
Interventi site-specific come Il dardo vìola, opera realizzata nel Parco Ranghiasci in occasione della “XXV Biennale di Scultura di Gubbio” del 2008 ed installazioni ambientali come … Un naufragio ci salverà, presentata nel 1995 all’interno di una chiesa sconsacrata nel centro di Sermoneta, creano una reciprocità tra l’intervento artistico e il contesto in cui esso si sviluppa instaurando un significativo coinvolgimento fisico ed ideologico che chiama in causa anche il fruitore dell’opera e fa sì che artista, spazio urbano e ambiente naturale non possano più prescindere l’uno dall’altro.
In questi anni Palumbo non si è limitato ad elogiare o descrivere la Natura; ascoltandola e dialogando con essa, ne è diventato l’architetto. E il Museo all’aperto “Kalenarte” che opera in sinergia con la “Galleria Civica d’Arte Contemporanea Franco Libertucci” di Casacalenda è la viva e pulsante testimonianza di questo impegno che costantemente si rinnova e del desiderio di condividere l’arte con la comunità destinando alla fruizione pubblica le opere realizzate da noti artisti nazionali ed internazionali.
Grazie alla passione e alla guida dell’architetto-artista Palumbo in venti anni di attività “Kalenarte” ha prospettato uno scenario inedito per il Molise e ribadendo la centralità del ruolo della Natura e dell’Arte nella società contemporanea si è affermato come snodo per la cultura, luogo di incontro per le idee innovative, incubatore di progetti per la società. 
Gli esiti della ricerca raffinata e sperimentale di Palumbo sono assimilabili alla riflessione sviluppata nell’ambito di correnti come l’Arte Povera e il Minimalismo. Dal suo esordio ad oggi l’artista ha posto al centro della sua indagine neo-concettuale temi come il fare arte e l’essere nella società rimanendo al di fuori di un sistema.
Nelle opere caratterizzate da un efficace linguaggio di tipo minimalista come nel caso de La scacchiera, intervento urbano realizzato nel 1992 per la Piazza Pertini di Casacalenda, Massimo Palumbo celebra attraverso la geometria seriale l’importanza della riflessione nell’arte. Sviluppa un procedimento analogo con la significativa serie I Bianchi, work in progress avviato alla fine degli anni Ottanta che, a partire dalla superficie bidimensionale opera una riduzione alla struttura elementare del quadrato ed induce il fruitore a guardare “oltre” le opere stesse e ad approdare al pensiero ad esse sotteso.
Le tele di Massimo Palumbo sono libri in cui, analogamente all’operazione compiuta da Emilio Isgrò, cancellare e accennare soltanto; sono campi di battaglia attraverso cui affermare la dimensione etica dell’arte o denunciarne i luoghi comuni e le banalità; sono fogli bianchi in cui trattenere la dimensione della quotidianità attraverso giornali o altri oggetti comuni ed infine sono semplicemente tele che, accolta la lezione del Disegno Geometrico di Giulio Paolini, svelano l’arte con i suoi strumenti ed i suoi inganni.
Palumbo utilizza materiale di vario tipo come legno, ferro, stoffa, rame ed oggetti di recupero e, valicando i confini dei singoli linguaggi e delle molteplici espressioni artistiche che abbracciano anche il design e la performance, si è affermato come artista poliedrico e originale.
Si inserisce magistralmente nell’ambito di questa ricerca “…noi che non abbiamo tetti…”, personale di Massimo Palumbo ospitata in due luoghi simbolo della città di Latina, il Teatro Comunale e il Palazzo della Cultura, e presentata nell’ambito delle manifestazioni promosse da MAD Rassegna d’Arte Contemporanea a cura di Fabio D’Achille.
La nuova prova artistica di Palumbo si sviluppa in aperto dissenso con quanti semplicisticamente e superficialmente sostengono che la cultura non possa rappresentare una risorsa economica e ribaltandone il punto di vista propone l’installazione “mangiamo cultura, con la cultura si mangia…”.
L’intervento, ospitato all’interno del foyer del Teatro Comunale Gabriele D’Annunzio, prevede l’installazione lungo il pavimento a marmi policromi di un segno metallico a nastro dalle dimensioni di 0,60x6,00 cm sul quale disporre una serie di vassoi con pane e testi letterari. L’accostamento pane/letteratura rende esplicito l’invito a fruire la nuova installazione di Massimo Palumbo, ma anche a nutrirsi dell’arte intesa come patrimonio e occasione di crescita ed è, al contempo, un sottile rimando – finemente sottolineato dalla presenza dell’attrice e performer Elisabetta Femiano coinvolta nella lettura dei brani scelti dall’artista – a un ben preciso filone dell’arte contemporanea che si sviluppa dagli happening all’arte relazionale.
In occasione di “mangiamo cultura, con la cultura si mangia…” il Palazzo della Cultura di Latina dedica a Massimo Palumbo la mostra “…noi che non abbiamo tetti…”, personale che abbraccia sia l’intensa produzione degli anni Novanta sia gli ultimi lavori dell’artista. “…noi che non abbiamo tetti…” diventa così un momento di approfondimento della ricerca di Massimo Palumbo all’interno della quale tracciare un percorso, coerente e continuo, che si estende dalle opere ancora fortemente attuali spegniamo la luce, l’aria è irrespirabile e …Un naufragio ci salverà alle più recenti calips, la serie che utilizza come materiale privilegiato le cortecce di eucalipto care all’artista in quanto espressione della Natura, “cambio di stagione…quando?” ed “eppurepesa” nelle quali l’ironia lascia il posto alla riflessione.
È in questo modo dunque che le opere di Massimo Palumbo diventano viaggi e la sua indagine artistica un continuo esplorare la sempre più necessaria dialettica tra architettura, arte e ambiente e le possibilità dell’Arte come motore per la società e la comunità.

Cristina Costanzo
Storico e Critico d'Arte

30.01.11.

street_art



               dan bergeron face of the city                  

giovedì 23 febbraio 2012

cambio di stagione...quando





Una semplice gruccia, appartenente alla quotidianità di ogni individuo e perciò ampliamente assimilata dalla comune cognizione conoscitiva, irrompe dallo spazio modificandolo e occupandolo prepotentemente.  Un oggetto di uso quotidiano dunque, esile e leggero, diviene enorme e potente come il messaggio sito sia nella disgiunzione frammentaria della forma originaria, sia nella de contestualizzazione dell’occasione d’uso. E’ in questo modo che Massimo Palumbo manda in scena gli inusuali interpreti, siano essi lamiere, acciai, gessi, legni, sul grande palcoscenico della nostra epoca storica. E’ in questo modo che l’artista dona forma e vigore ai propri ideali, tramutandoli in quesiti e provocazioni, conditi da una sana satira, prerogativa indiscussa del popolo italico.
E sul palco del nostro incerto “oggi”, titubante nella lungimirante proiezione di un’ inconsistente “domani”, il Bianco, accecante nella sua purezza, di Massimo Palumbo sembra urlare, sembra implodere, mentre invoca ascolto, aiuto, soccorso.
Quindi il fare artistico assimila l’oggi storico ed epocale, lo cristallizza, lo rende visibile e vivibile, è in grado di  donare sintesi e struttura corporea ad un antico concetto mentale, mai sopito: il cambiamento, l’evoluzione, che si contrappone intellettualmente alla stasi, al ristagno sociale, al’immobilità d’azione.L’opera di Massimo è interrogazione ed affermazione insieme, sollecitazione e sarcasmo, è provocazione e stimolo, è messaggio verbale e constatazione materiale, è logica e semiotica, è una finestra socchiusa sul nostro vissuto e spalancata sul nostro vivere, non è una visione ideologica utopistica, non muove dall’esigenza di dover inventare un nuovo sistema, muove altresì dal reale bisogno di (ri)compattare e dare nuova linfa alle radicate convenzioni di un popolo, e perciò è quanto di più concreto l’arte concettuale del giovane terzo millennio possa offrire ad una sociologia ormai antica e logora.
Una semplice gruccia, elevazione allegorica di una frantumazione ideologica, è quanto di più esemplare l’arte contemporanea possa elaborare e restituire alla sensibile attenzione di coloro che, andando oltre, riescano a misurarsi e ad identificarsi in ogni singolo elemento di una tale alienante disgregazione.      
Francesca Piovan





Galleria Opera Unica
Via della Reginella 11 Roma

"....cambio di stagione  A quando?! "
   2011 
Installazione 
di Massimo Palumbo
a cura di Francesca Piovan





xx kalenarte





Campidoglio_ROMA presentazione del Catalogo
XX KALENARTE

galleria civica d'arte contemporanea franco liberucci


La storia di Kalenarte, la collezione della Galleria Civica d’Arte Contemporanea e le sculture del museo all’aperto di Casacalenda rappresentano un patrimonio di indubbio valore per le esperienze complesse dell’arte contemporanea in Molise e nel nostro Paese. Il rapporto speciale che questo piccolo e magnifico centro ha saputo creare con le tendenze artistiche odierne e con molti loro protagonisti costituisce infatti un esempio di grande rilevanza per una visione organica della città e del paesaggio dove la storia e il presente, l’attualità e la tradizione si integrano in un dialogo unitario e fecondo. Questo lungo e ampio progetto appare dunque come una soluzione valida e concreta, come un possibile modulo germinale da proseguire e da imitare, per rispondere concretamente alle questioni poste dal problema dell’arte urbana e dai musei di arte contemporanea, sempre più spesso al centro delle riflessioni su un’arte non più concepita per restare chiusa nei suoi luoghi deputati e legati a una fruizione elitaria, ma destinata ad aprirsi a un pubblico nuovo e sempre più ampio. La dialettica positiva e virtuosa tra il passato e la contemporaneità, la possibilità di lavorare con la creatività di oggi per dare una più intensa energia a territori e a stratificazioni sociali che rischiano troppo spesso l’abbandono e l’oblio, hanno così trovato a Casacalenda una qualità unica ed esemplare nel rapporto delle opere con l’architettura, con la conformazione e la vita stessa del tessuto urbano e nella creazione di una collezione permanente. La Galleria Civica Franco Libertucci diventa dunque un ulteriore cardine di continuità all’interno di questa lunga vicenda che ha saputo unire artisti di valore nazionale e internazionale, nel tentativo, forse, di riscoprire il significato di un’arte che possa essere ancora un elemento basilare della storia e dell’esistenza di una comunità che vuole dare un senso più profondo alla sua memoria e al suo futuro.

LORENZO CANOVA
Università del Molise    (1997)
                                                                 







mercoledì 22 febbraio 2012

il memoriale di peter eissenman a berlino


Il Memoriale di Peter Eisenman a Berlino per gli Ebrei d’Europa assassinati

Esistere nell’assenza di nomi

di Francesco Dal Co
Il 20 agosto 1943, racconta W.G. Seebald, l’"Operazione Gomorra", pianificata dalla Royal Air Force, è compiuta. Diecimila tonnellate di bombe hanno ridotto Amburgo a una mare di fiamme. I sopravvissuti si raccolgono in processioni che non hanno mete. Un gruppo di loro tenta di assalire un treno; una valigia di cartone cade sul marciapiede "si rompe e ne esce fuori il contenuto. Giocattoli, un nécessaire per il cucito, biancheria bruciacchiata. Per finire il cadavere di un bambino carbonizzato, ridotto a una mummia, che una donna ormai al limite della follia si trascina appresso come vestigio di un passato solo pochi giorni prima intatto".
Anche il comportamento di quella donna, di cui non conosciamo il nome, conferma che la fenomenologia della rimozione è fondata sul ricordo. Alla medesima fenomenologia appartiene anche il rifiuto della realtà che ha consentito agli abitanti delle città tedesche distrutte di rimettersi immediatamente al lavoro dopo la fine della guerra, perché "nessuno al mondo lavora così tanto e così duramente come i tedeschi", osservava Hannah Arendt nel 1950. Inciampando tra le rovine della loro storia, aggirandosi indaffarati tra i cumuli delle loro macerie - 42,8 metri cubi ne spettavano ad ogni abitante di Dresda -, i tedeschi "scrollano le spalle o reagiscono con risentimento quando vengono loro ricordati gli atti orribili che ossessionano tutto il resto del mondo" e osservandoli, continua Arendt, "ci si convince che l’operosità è diventata la loro principale arma di difesa contro la realtà".
Ora, ora che persino Berlino non è più un’isola e la città non è più un organismo privato del diritto alla crescita da una profonda, paralizzante cicatrice, l’indaffarata laboriosità, che come un muro ha protetto i tedeschi dai fatti, potrebbe sembrare destinata a cedere. Lì dove Albert Speer aveva progettato i monumenti del Reich millenario, sorgono oggi grattacieli e piazze ordinate e il sistema nervoso della città divisa è stato rimesso in funzione. Ma edifici eretti frettolosamente per rassicurare i tedeschi e il mondo che la Germania è definitivamente entrata a fare parte di una storia che non sarà soltanto il popolo tedesco a scrivere, si allungano insicuri della loro imponenza, afflitti dall’eccesso di eloquenza di cui si compiacciono.
I simboli della rimozione si sono dati convegno accanto al vecchio Reichstag. Qui, una cupola spettacolare e ardita ha preso il posto di quella disegnata a suo tempo da Paul Wallot, andata distrutta; i turisti, avendo la possibilità di visitarla, possono salire sino ai camminamenti sospesi e sfiorarne le vele trasparenti; dall’alto possono ammirare, come accade a coloro che in un acquario osservano i pesci esotici, lo spazio maestoso dove si compiono i riti della democrazia; possono provare persino un senso di ebbrezza, dato che la tecnica è qui più che mai impianto esibito, smemorata circostanza - scenografia sui cui effetti i costruttori della cupola hanno puntato l’intera posta. Questa complessa macchina, nelle cui superfici Berlino ricostruita pare riflettersi, sembra essere stata progettata per zittire persino il fruscio delle parole ancor oggi in epigrafe sul frontone del Reichstag, "Dem Deutschen Volk", per le quali Peter Behrens e Anna Simons avevano disegnato caratteri che parevano strappati a una storia secolare.
Qui, non a caso su un’area che avrebbe dovuto essere oscurata dall’ombra della Kuppelhalle e scomparire di fronte alle dimensioni della Grossen Platz progettate da Speer, accanto alla Cancelleria di Hitler, a poche decine di metri dal Reichstag, della Bradenburger Tor e di Pariser Platz ora ricostruiti, accanto al Tiergarten, si trova il Memoriale per gli Ebrei uccisi d’Europa. Quando Peter Eisenman ha vinto il concorso bandito per costruirlo correva l’anno 1997.
Berlino era allora indaffarata; molto c’era da fare e anche il Reichstag reclamava la sua cupola, tranquillizzante e spettacolare; così, in questo caso, le decisioni sono state prese lentamente, l’ammirevole operosità tedesca ha conosciuto una battuta d’arresto, i fatti sono stati tenuti ancora una volta a bada e solo il 10 maggio 2005 il Memoriale è stato inaugurato.
Lo formano duemilasettecento steli, allineate lungo percorsi che tagliano ortogonalmente l’intera area, che misura circa 20.000 metri quadrati. Intorno, la città offre la vista di quinte che ne attestano la compiuta ricomposizione e di edifici dai profili ascendenti, analoghi a quelli della cupola vetrata che si leva sulle solide, ingenue e banali colonne del Reichstag. Le steli del Memoriale, invece, sono conficcate nella terra; hanno spessore e larghezza uguali, 95 e 237,5 centimetri; formano lunghe file parallele, separate, le une dalle altre, da una luce di 95 centimetri; hanno altezze diverse, da pochi a quattrocento centimetri. La terra e non l’etere è l’elemento che le accoglie. Per lo più si levano verticali, e sono rare quelle lievemente inclinate, quasi sia stato assegnato a queste soltanto il compito di ricordare che chi rinuncia alla fuga nell’aria non è autorizzato a sottrarsi all’inquietudine antica, ad ignorare l’instabilità degli appoggi che la terra offre. Le steli sono monocrome e le loro terminazioni, come punti di rette che poi si intrecciano a formare una fitta maglia, disegnano un profilo incurvato in più direzioni, che la luce radente rende simile a un velario sospeso sul terreno. Nessun nome e nessuna scritta compaiono sulle steli; nulla annuncia a chi vi giunge che i cunicoli che gli si aprono accanto o di fronte costituiscono un Memoriale, che l’architetto ha saputo concepire come un luogo che tale è proprio perché ad esso non si adatta alcun nome.
Tra le steli si affonda; lentamente, mentre il cammino prosegue lungo i cunicoli, le chiome degli alberi e le cuspidi della città scompaiono alla vista, stimolata dal progressivo affievolirsi della luce del sole. I passi si succedono meccanici tra prospettive ossessive che variano incessantemente senza mai mutare d’aspetto; il movimento attraverso la fissità e la permanenza è privo di direzione e non ha meta: allontana da nulla e a nulla avvicina, accompagnato unicamente da una crescente inquietudine geologica.
L’opera dell’architetto si presenta frutto di un lavoro essenziale e primitivo, simile a quello che richiedono lo scavo e le operazioni di dissotterramento. D’altro canto, quelle steli, ricorda Eisenman, non sono frutto della fantasia o dell’ingegno del progettista: erano già lì, nascoste dall’edera dei giardini, dalla terra, dalla polvere delle distruzioni accuratamente accumulata ai bordi del parco, come si è fatto con le rovine delle baracche nel campo di stermino di Bergen-Belsen. Erano lì da sempre, nel cuore della città cresciuta ordinatamente, distrutta e poi ricostruita - un segreto che l’architetto ha soltanto forzato, senza osare per esso un nome.
Erano lì, quelle steli grigie, protette dalla polvere depositata e dalla "scimmia che digrigna intelligentissima i denti", come diceva Nietzsche, che ricorda agli uomini che di ciascuna di queste pietre sono loro gli artefici e non già la follia della ragione che ne ha guidato l’agire contingente.
Non è neppure una rovina quanto è affiorato, grazie al lavoro da archeologo che Eisenman ha compiuto sulla spianata di fronte al Tiergarten. Le rovine reclamano senso della storia e culto per il passato, atteggiamenti non richiesti, perché ad essa indifferenti, dalla monocroma monotonia delle steli che l’architetto ha immaginato di avere individuato e poi dissepolto. Nel Memoriale berlinese non si prova ciò che gli spiriti che intrattengono buoni rapporti con la storia avvertono di fronte ai luoghi che offrono alla vista i ruderi che ospitano, "in presenza dei quali", scrive Ernst Jünger, "desolazione e superbia si compenetrano stranamente: desolata tristezza per la fugacità di tutti gli sforzi umani, superbia per la volontà che con lena sempre rinnovata cerca di affermare che essa appartiene alle realtà imperiture".
Non vi è spazio per simili sentimenti nel Memoriale, e neppure la paura è qui ammessa. Un’angoscia insopprimibile, invece, afferra chiunque, abbandonati gli stretti camminamenti, decide di entrare negli spazi ipogei, le cui coperture sono modellate dalle pieghe del terreno sovrastante. Sono immagini contundenti, impermeabili ad ogni tentativo di interpretarle, indifferenti alle domande, incuranti di ogni spiegazione, quelle che si osservano nel sacrario ritagliato sotto la spianata delle steli; rispondono soltanto ai nomi che le accompagnano, soli o riuniti in interminabili elenchi. Leggendoli, si può immaginare a quali altri nomi di città o di villaggi associarli, a quali paesi ricondurli, sino al punto in cui se ne avverte il fitto affollarsi e il brulicante infittirsi, l’imponente dilagare dal cuore del continente all’intera Europa,
Anche gli spazi ipogei del Memoriale sembrano modellati facendo ricorso ad attrezzi molto semplici, che Eisenman ha privilegiato per non concedere, nel costruirli, ruolo alcuno alla tecnica, sapendone l’inadeguatezza ad evocare l’impossibilità di ricordare collettivamente quanto neppure la memoria può sopportare e soltanto il pensiero, nel suo esserci più radicale, dimesso, intransigentemente soggettivo e nudo, può arrischiarsi ad affrontare.
Quelli che Eisenman ha impiegato, sono utensili primordiali, non raffinati dall’uso e dal tempo, non molto più evoluti di una vanga, usata per rimuovere il terreno e modellarlo, secondo quanto le steli che lì si trovavano richiedevano. Ma così facendo e a dispetto della modestia dell’attrezzatura utilizzata, il nostro architetto si è comportato da geologo, da archeologo e fors’anche da biologo, se è vero, come Jünger ci induce a credere, che lo studio degli strati di una sedimentazione geologica richiede competenze analoghe a quelle di cui deve disporre chi intende conoscere il passato delle nostre città. "Dal punto di vista biologico", scrive Jünger, "fra uno strato che si è formato attraverso il depositarsi di diatomee o l’accumulo di coralli e una di quelle grandi colline erette dall’insediamento dell’uomo nel corso di molte generazioni non esiste differenza. Nell’un caso come nell’altro troviamo resti di habitat mescolati alla polvere dei loro abitatori. Una metropoli sotto il cui asfalto si accumulano catacombe, sepolcri, rovine, macerie e calcinacci di cinquanta generazioni richiama alla mente una barriera corallina. La vita abita l’epidermide più superficiale e caduca, su cui muove i suoi tentacoli, si nutre e inscena i suoi giochi di guerra e d’amore". Questo paragone è istruttivo, ma soltanto se se ne rovescia il senso si rivela utile per spiegare il significato del lavoro che Eisenman ha compiuto a Berlino. Le steli che compongono il Memoriale non hanno né i colori né le forme variate delle diatomee, né le iridescenze delle barriere coralline, e non sono neppure accomunabili ai sepolcri, alle catacombe, alle rovine che dal profondo delle città emergono a sfidare la nostra capacità di ricordare e immaginare. Queste steli alludono a qualcosa che viene prima di tutto questo, omogeneamente grigio e compatto, e riguarda l’uomo in quanto tale - l’uomo capace di ammirare sino a chiamare corallo le curiose forme che osserva nel mare, ma al contempo di riservare a sé ciò che non sarà poi neppure in grado di ricordare e di nominare, liberando l’energia terribile che il suolo delle città da lui costruite comprime, nasconde e conserva.


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Questo saggio di Francesco Dal Co viene pubblicato su archimagazine il 17 giugno 2005 su concessione della redazione di Casabella ed è stato scritto per il numero 735 del mese di Luglio-Agosto 2005 della rivista Casabella