martedì 15 marzo 2016

per Massimo di Andrea Lanini




  per Massimo di Andrea Lanini

Quando ci siamo incontrati nuovamente, ci siamo riconosciuti dalla voce.
Nella animazione un po’ frenetica di una mostra che si inaugurava in una galleria di Trastevere, ho ritrovato l’amico Massimo dopo molti anni. Le altre voci, quelle delle università occupate, delle manifestazioni, delle speranze e delle illusioni, si erano spente nei labirinti tortuosi della storia, ma credo di poter dire, pensando a quella sera, che grazie alla passione per l’arte, tutti e due ne eravamo usciti senza perdere l’entusiasmo e la voglia di fare.
Ho sempre guardato al percorso professionale e artistico di Massimo Palumbo con ammirazione, stupore e, lo confesso, anche con una punta di amichevole invidia. Il fascino del viaggio, di una serie di avventure creative e di idee che si susseguono nel tempo, secondo un filo tessuto e inventato volta per volta, mi è sembrato sempre evidente nel lavoro di Massimo, nel quale ogni episodio e ogni creazione sono legate tra loro con grande naturalezza.
Ce n’è abbastanza per provare ammirazione e stupore, ma allora l’invidia?
Beh, quella deriva dal fatto, diciamo pure prodigioso, che in questo viaggio – un unico, coerente, poetico viaggio – Massimo è riuscito a tenere insieme, in una visione incantata e felice, l’arte e l’architettura. Non voglio tirare in ballo ricordi e rimpianti personali, ma azzarderei almeno una constatazione, per quanto impietosa possa apparire, e cioè che gli artisti non sempre si muovono a loro agio nell’architettura e ancora meno gli architetti si destreggiano nel mondo dell’arte. Verrebbe invece in mente, pensando alla sua esperienza, di risalire alla grande tradizione dell’arte italiana, a quella sintesi delle arti raggiunta da alcune straordinarie personalità del passato, che oggi sembra del tutto irraggiungibile, se non temessi di essere rimbrottato da Massimo e dalla sua immancabile ironia.
Sta di fatto che certi suoi lavori pittorici, dominati da un bianco che risolve il conflitto tra materia e forma, come pure tra oggetto e spazio, senza perdere il valore tattile e vissuto della percezione, diventano talvolta apparizioni di territori ideali, di paesaggi immaginari di una utopia urbana che si apre d’improvviso  davanti ai nostri occhi. Mentre le sue istallazioni nel contesto naturale o urbano, che potrebbero sembrare delle grandi, fantastiche sculture, hanno la capacità, proprio attraverso una intuizione sempre divertita e spiazzante, di dare nuovo significato a quel contesto, di consentirne una diversa lettura che è già, con piena legittimità, meditata progettazione.
Ripenso alla Sedia di Polifemo, sistemata nel grandioso silenzio del parco del lago di Fogliano, dove lo specchio d’acqua smisurato si trasformava in una sorta di enorme piscina termale nella quale un titanico nuotatore poteva essersi tuffato a rinfrescarsi un po’. E il paesaggio, dominato dal monte Circeo quasi sorgente dal mare, diventava il sogno domestico di un occhio ciclopico che consentiva anche a noi, piccoli viaggiatori della pianura Pontina, di affacciarci al mondo della grande dimensione, di una lontananza epica che fa parte più della poesia che della realtà.  E la sua Scacchiera, inserita con estrema delicatezza nel centro storico di Casacalenda, risolvendo, in un istante  raggelato nel tempo, il saliscendi continuo delle strade e dei vicoli, è la dimostrazione elegante e per nulla impositiva che la ragione può dare un senso al contesto, se ha in sé anche la leggerezza del gioco.
D’altra parte, tutta la storia e la realtà di Kalenarte, nella sua straordinaria follìa e concretezza, è un’opera d’arte non meno pensata e compiuta delle opere dei singoli artisti che la compongono. Il ruolo dell’artista-curatore, che oggi viene proposto come una novità scaturita dal carattere effimero e relazionale dell’arte contemporanea,  Massimo Palumbo l’aveva già inventato più di venti anni fa. E cosa, se non la regia e l’immaginazione di un artista e la cura perseverante di un architetto, avrebbe potuto creare quasi dal nulla l’itinerario magico di Casacalenda  e la sua imprevedibile rinascita come città ideale?
E sarebbe davvero bello se la città immaginaria di Massimo, quella che prende forma da tutte le sue visioni, le sue invenzioni e le sue provocazioni, legate tra loro e animate dal filo conduttore dell’ “Unico Viaggio” della sua esperienza, potesse divenire spazio vivibile, come egli lo presenta nel suo Hangar 3.0, progetto vincente per la riqualificazione di Piazza del Popolo a Latina. Anche questa è una tappa essenziale e preziosa del viaggio di Massimo Palumbo, nella quale le soluzioni già sperimentate o intuite o anche semplicemente sognate si intrecciano in una visione aperta e innovativa generosamente donata alla sua città di adozione. La piazza, oggi sostanzialmente estranea alla autentica vita della città, diviene nel progetto uno spazio dinamico e insieme equilibrato, che si inserisce nel contesto con spiazzanti ma significative citazioni. Il ricordo della sua grande ruota di bicicletta, immaginata come oggetto incongruo sullo sfondo della nuova espansione urbana, si ritrova nel quadrato inclinato di Piazza del Popolo, allusione alle quadrature della Latina storica ma anche alle antiche misurazioni del territorio romano. Una proposta visionaria ma pienamente realizzabile, dove anche il segno familiare del portico viene riletto come invito ad uno spazio del tutto nuovo, percorso dalle tecniche audiovisive e interattive che trovano qui una  dimensione veramente sociale e in ultima analisi una loro appropriata bellezza.
Certamente quello di Massimo Palumbo è stato un unico, suggestivo viaggio che tuttora continua e che comunque non è stato facile : come tutte le avventure coraggiose ha incontrato conflitti e difficoltà, ostacoli e ripensamenti che egli ha affrontato come la sostanza stessa delle cose e della vita, che ha una sua resistenza e durezza e va ogni volta interpretata e adattata alle istanze profonde di chi vuole, come lui, immaginare e modificare, sognare e realizzare. Così, quando penso agli esiti del suo bel progetto Hangar 3.0, sento la voce di Massimo che dice : “Noi la nostra proposta l’abbiamo fatta. Ora tocca a loro.” E se “loro”, cioè le istituzioni, la cultura politica e i meccanismi amministrativi e decisionali accogliessero, con un atteggiamento illuminato che forse è utopistico richiedere, idee come quelle che Massimo ha espresso nel suo  straordinario, Unico Viaggio, forse, il nostro, potrebbe essere un paese migliore.





La realtà dell’utopia di Lorenzo Canova



....soli a corviale


La realtà dell’utopia   di Lorenzo Canova
 La realtà dell’utopia

Lorenzo Canova

Una visione sospesa tra idea e materia, un percorso che fonde il sogno del progetto e la realtà densa delle cose, un viaggio tra l’ordine della ragione e il disordine del mondo: l’opera di Massimo Palumbo unisce i diversi campi espressivi in una fusione dove i linguaggi delle arti visive e dell’architettura mettono in scena una profonda e continua riflessione sul tema dell’utopia, spazio mentale e concreto dell’irrealizzato, del possibile e della perpetua tensione costruttiva.
L’utopia rappresenta, infatti, da secoli uno dei motivi portanti di un’importante visione dell’architettura vista non solo in senso estetico, ma come metodo e strumento di innovazione, di intervento sul mondo e sulla società, come spazio di pianificazione e di immaginazione, dove l’architetto agisce con il disegno e la scrittura ipotizzando e costruendo spazi fittizi o reali attraverso una teoria che tende costantemente a concretizzarsi.
In questo contesto si colloca l’azione stessa di Palumbo, la sua visione dell’arte contemporanea proprio come utopia permanente di una nuova visione del reale, come sistema di azione per dare un nuovo impulso sociale e culturale al suo territorio di origine.
La scrittura, l’oggetto, il disegno e la luce sono i fili conduttori che accompagnano Palumbo nella sua azione, allo stesso tempo lineare e complessa, in un mosaico di interessi e creazioni dove prassi e idea, progetto, esecuzione e visionarietà si coniugano in un metodo articolato e teso perennemente verso un’azione destinata a dare forma materiale al sogno, non solo estetico, dell’utopia.
Massimo Palumbo mescola quindi piani differenti facendo dialogare materia e pensiero, montando assemblaggi di stoffe, corde, pani e azzerandoli concettualmente nella dimensione luminosa del bianco, proseguendo il discorso di Piero Manzoni ed espandendolo nella dimensione urbana. La dialettica tra la distruzione e la rinascita, tra i relitti del mondo e la ricostruzione perenne del nostro spazio impegna dunque Palumbo in ogni campo della sua riflessione artistica, unendo la rapidità dello schizzo e dell’abbozzo alla finitezza della costruzione, della scultura, dell’edificio, in un territorio in cui la stessa idea di monumento viene riletta e trasformata partendo dalla sua crisi e dalla sua messa in discussione nel contesto attuale.
In questo modo il percorso di Palumbo parte dai suoi appunti dinamici per prendere forma e sostanza in un cammino sospeso tra peso e leggerezza, tra la navigazione delle barchette di carta e il fiume dolente di un reticolo di filo spinato.
L’approdo finale può metaforicamente essere allora il Sole che sorge nella sua perfezione circolare nel quartiere periferico di Corviale a Roma, forse un monumento ideale e leggero che riflette il pensiero filosofico di Tommaso Campanella e della sua Città del Sole, trattato dove la stessa struttura urbanistica è costruita sulla perfezione ideale dell’utopia.
Il sole di Palumbo diventa così un segno di rinnovamento e di ricreazione, un atto leggero e assoluto di dialogo con lo spazio della città e con la sua natura perennemente problematica, il gesto lieve e rigoroso di un artista che cerca di ridare dignità al contesto urbano attraverso la complessa e dialettica realizzazione dell’utopia dell’arte nello spazio pulsante della vita.



soli a corviale
studi per segni urbani
50x40x42
maquette, legno, vinavil, cemento bianco.
2015
MASSIMO PALUMBO

...firme,controfirme a Barcellona



...firme,controfirme a Barcellona


 
.......a quest’importante appuntamento non sono voluti mancare il Console Generale Stefano Nicoletti, che ha dato anche il suo patrocinio, e chiaramente il Presidente della Casa Giuseppe Meli ha proseguito con i saluti agli invitati e non solo, ricordando l’importanza istituzionale della Casa degli Italiani e degli eventi organizzati. Per il Reial Cercle Artístic hanno assistito il Presidente Josep Félix Bentz e il suo Vice, Joan Abelló.







............è da segnalare inoltre che quest’esposizione è importante anche perchè è la prima organizzata non solo in collaborazione – secondo l’accordo che va avanti da qualche tempo e che è stato firmato ufficialmente proprio lo scorso 8 Marzo – ma addirittura in contemporanea con il Reial Cercle Artístic de Barcelona.
La sera ha avuto seguito con un breve brindisi dove gli ospiti della Casa hanno potuto partecipare ammirando le opere dell’artista Palumbo, che è stato invitato ad apporre la propria firma sul Libro d'Onore dove sono raccolte le testimonianze degli ospiti più illustri di questi 151 di vita della Casa. Tra questi, due Presidenti della Repubblica (Cossiga e Pertini), alcuni Premi Nobel (Levi Montalcini, Pirandello, Quasimodo), Premi Oscar (Fellini), campioni dello sport (Carnera, Meazza), il vincitore del Grammy Luciano Pavarotti, il 7 volte Presidente del Consiglio Andreotti e il Re di Spagna Alfonso XIII.


by Giulia Mazzolini




...a spasso per Barcellona!

...a spasso per Barcellona!


....lo sono di quelli che



Un unico viaggio.
Massimo Palumbo – Arte e architettura (1970-2015)


" ....lo sono di quelli che credono - e per me è molto importante - che gli uomini appartengono a qualche luogo. L’ideale è essere di un luogo, avere le radici in un posto, ma che le nostre braccia siano aperte a tutto il mondo, che ci siano utili le idee di qualunque cultura. Tutti i luoghi sono perfetti per chi vi si adatta ed io, qui nei miei Paesi Baschi, sento che questo è il mio posto, come un albero che si è adattato al proprio terreno, ma con le braccia aperte a tutto il mondo......"
 Eduardo Chillida
                   



Un unico viaggio.
Massimo Palumbo – Arte e architettura (1970-2015)

di  Teresa Lucia Cicciarella

Osservare uno spazio urbano, progettare, agendo in esso con segni, forme e significati, è accostarsi a una tela bianca, ci dice Massimo Palumbo.
Si assesta così, sin dapprincipio, la metafora esemplare di un metodo operativo e di un pensiero creativo intrapresi nei primi anni Settanta e pienamente in corso.
Una mostra antologica, sviluppata in due sedi, è oggi dedicata al lavoro di Palumbo, ed è occasione propizia per ripercorrere un itinerario – “un unico viaggio”, nelle parole del protagonista – svolto con passo coerente tra arte e architettura, poli che non si escludono a vicenda ma, al contrario, si sostengono, completandosi in simili riflessioni sulla materia e sulla memoria dei luoghi, delle persone e delle cose. Sulla responsabilità civile e sul senso più autentico dei valori d’identità e collettività.
Già dagli anni universitari interessato all’arte, e alla liberatoria alternanza tra creatività e prassi architettonica, Palumbo ha associato alla progettazione innumerevoli serie di disegni, studi su carta, collage polimaterici; nei primi Novanta approdando a una poetica personale che, gravitando intorno alla bidimensionalità della tela ma aprendola a nuovi sviluppi –  attraverso l’inserimento di materiali altri – afferma nella scelta del bianco la volontà di un azzeramento cromatico che contiene, in potenza, innumerevoli sviluppi e significati. In una chiave di semplicità e rigore che, non di rado, approda a forme di narrazione in nuce e a temi di valore etico, politico. Intendendo, con quest’ultimo termine, un politico in senso radicale, semantico, non contingente né superficiale come oggi, forse, si potrebbe fraintendere. Tale aspetto emerge dagli argomenti trattati, dalle vicende osservate da Palumbo e dall’esplicito collocarsi su una via espressiva che – da Burri a Tàpies, all’asciutto linguaggio dell’Arte Povera – trova nel mescolarsi di materie, polveri, residui oggettuali, la sua ragion d’essere, ben oltre gli stilemi indotti dalle mode.
L’approccio di Palumbo all’architettura, testimoniato in mostra dall’ampia sezione ospitata dalla Casa degli Italiani, è lineare, vissuto in chiave anti-monumentale sebbene emerga, a più riprese, il rimando a un’utopia che vuol segnare il tessuto urbano con forme e spazi archetipi – questo il caso della ruota ideata nel ‘95 o della recente vela bianca di Buon vento (2014-2015), realizzata sulla costa siciliana del Mediterraneo e qui presentata in forma di maquette.


Come già rivelato dai primi disegni – la serie di sei inchiostri datati 1970 – la ragione costruttiva si mescola, su carta, al guizzo segnico, al movimento condensato e fissato in forme che salgono, si dilatano, suggeriscono spazi o, piuttosto, immaginarie topografie.
Le possibilità dell’architettura trovano infine, in Palumbo, due ideali estremi nell’ampia, basilare Scacchiera ideata nel 1992 per Casacalenda – suo paese d’origine, in Molise: fulcro dell’ampio progetto Kalenarte che, dal 1991, ha arricchito il territorio di opere d’arte urbana, concepite per la collettività – e in quei Soli a Corviale (2015) recentemente raffigurati nel progetto-maquette ideato in concorso per la riqualificazione della periferia romana.
La Scacchiera invita alla partecipazione, al gioco, al ritrovo amicale – in quella dimensione di incontro e scambio propria dei piccoli centri abitati – e rinnega del tutto l’ipotesi del monumento, del segno celebrativo che accentra su di sé le prospettive e gli itinerari di una piazza; Soli a Corviale d’altro canto suggerisce, nell’ipotesi del doppio elemento iconico, l’espressione di una comunità che vuol riconoscersi, finanche in una forma significativa che ne possa divenire emblema, spinta di riscatto estetico e sociale.
Il bianco dei modelli del Palumbo architetto rimanda, a stretto giro, al nitore cromatico delle opere d’ispirazione pittorica (oggi esposte nelle sale del Reial Cercle Artístic): opere che, per meglio dire, lasciano la pittura al fondo per avanzare al primo piano d’attenzione, forti di materie eterogenee, interessanti. Le increspature date da queste, ingessate dal bianco, pur rivelano la loro originaria natura: agli inizi è sughero, in frammento o brano di maggior consistenza; è poi stoffa, sabbia, elemento oggettuale; è, ancora, corteccia di eucalipto che, nel quadrato di Calips (2010) o nel dittico Paesaggio in verticale (2013), è traccia territoriale riconoscibile della Latina ancora memore dei coloni veneti che, per primi, negli anni Trenta vennero chiamati a bonificarne il suolo.
Più volte, nelle opere di Palumbo, il gioco linguistico evidente nel titolo accompagna e sostiene la semplicità delle forme innescando, in chi guarda, meccanismi di riconoscimento e partecipazione: è il caso di L’aria è irrespirabile o di Spegniamo la luce, entrambi lavori del 1993, che a una più attenta lettura svelano il riferimento alla società e al momento politico vissuto nei primi anni Novanta.
Anche nelle opere di meno preciso rimando oggettuale o materico, l’omogenea veste bianca offre allo spettatore – così nelle parole di Palumbo – “un momento di serenità visiva che è anche possibilità di pensiero”: il monocromo, ben lungi dall’essere elemento di chiusura formale o di annullamento semantico, diviene campo neutro nel quale la materia viene sottolineata, nobilitata e rinasce a nuovo utilizzo. Il bianco è volontà di sintesi, di livellamento a un grado zero dell’immagine che focalizza dunque su alcuni, precisi contenuti, spesso correlati – ed è qui, ancora, una formula che l’artista ama ripetere – alla “storia delle cose”, ossia alla suggestione e al senso specifico che il frammento materico reca con sé, nella composizione nella quale confluisce. Si chiarisce allora la metafora accennata in apertura: la tela bianca, così come il tessuto urbano, rappresentano per Palumbo lo spazio nel quale agire; uno spazio non certo vuoto, né privo di racconti. Denso, al contrario, di piccole storie, memorie e voci che in esso trovano nuova linfa. Similmente accade, ad esempio, in Teresa o in Fontepompa, entrambi lavori del 2014, installati alla parete come grandi quadri-collage polimaterici.





A dare il titolo e la forma all’opera sono, in questi casi, brandelli di memoria di paese, di memoria familiare che – ancora una volta a Casacalenda – ha sollecitato il ricordo e l’occhio dell’artista.
Teresa è, così, la bisnonna ricordata da porzioni di lino ricamato dalle sue stesse mani; Fontepompa è riferimento toponomastico, invece, al sito nel centro di Terravecchia nel quale si trova l’antica casa di famiglia.
La serie dei “bianchi” materici, che pure costituisce la maggior parte del lavoro artistico di Palumbo, non preclude l’adozione di altre tecniche e cromie giacché, anzi, l’artista conferma l’attitudine di sperimentatore di materie e forme. Così, ad esempio, una serie di carte concepite in Omaggio a Burri (2000) si sviluppa – in tecnica mista – assecondando il piacere della libertà compositiva e dell’azione dissacrante sulla materia che viene manipolata, sovrapposta, bruciata e annerita in dichiarato rimando a uno tra i grandi padri del secondo Novecento.



Ancora, il bianco cede il posto a preziosismi vicini all’oro nella serie Segni/Disegni (1992: di recente – 2015 – esposta presso il Conservatorio di Latina) nella quale, come notazioni e accenti musicali, sprazzi di china si liberano in un gioco di segni, colori, accenti di derivazione quasi informale.


Non in ultimo, l’odierno percorso catalano mostra installazioni nelle quali narrazioni contratte rimandano alla cronaca delle drammatiche migrazioni (A piedi, un fiume possente ma silenzioso, 2015) lasciando, tuttavia, lo spazio per una nota di speranza e buon auspicio: questo il senso de Le bianche barche…!, delicata costruzione in legno e carte piegate, del 2013.
Accompagnato e avvalorato dalla lunga attività di Massimo Palumbo come promotore culturale, l’itinerario antologico – tra arte e architettura – dimostra la pienezza e lo spessore della sua personalità: le tante sfumature di un carattere, di un percorso che mai sovrabbonda, ma esprime sobria coerenza e l’entusiasmo, costante, del fare.

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“…per noi che siamo andati vagando alla ricerca di luoghi e di identità…”
 Massimo Palumbo