mercoledì 26 settembre 2012


intervista a 

COSTAS VAROTSOS
di Giorgio Bonomi

La monumentalità contemporanea della scultura di Costas Varotsos. Colloquio di Giorgio Bonomi con Costas Varotsos
da
TITOLO  

Rivista scientifico-culturale di arte contemporanea


Giorgio Bonomi Ho sempre pensato che, forse, tu esprima il meglio della tua poetica nella grande dimensione. Anche quando le sculture devono essere collocate in luoghi ristretti, come gli spazi delle gallerie, quelle non possono non “riempire” tutto l’ambiente. Il problema è, quindi, lo spazio. Questo è il “materiale” apriori della scultura, la quale è posta in un luogo che così viene modificato ma che, a sua volta, modifica l’opera stessa.
Le tue sculture pubbliche hanno questa forza: cambiano l’ambiente ed esse stesse sono “definite” – dopo il tuo lavoro – proprio dal sito, da ciò che qui avviene: per esempio Runner, posta in Piazza Omonia ad Atene, del 1988 o Anelixis del 1992, sempre in Atene in Piazza Interamerican, hanno già in se stesse una grande forza di movimento centrifugo, ma è proprio il traffico che si svolge là attorno che definisce e accresce la forza del movimento intrinseco alle opere.

Costas Varotsos   La dimensione di un lavoro dipende sempre dalle relazioni che stabilisce con le altre dimensioni che puntualizzano lo spazio intorno. Non si tratta di dimensioni numeriche ma di dimensioni che nascono dalla stratificazione storica e culturale dello spazio su cui devo intervenire: nella scultura è importante lo spazio intorno e l’energia che riesce a trasmettere, diventando parte della stratificazione storica e culturale del luogo dove è collocata.
Nella galleria le cose sono diverse: qui non c’è la dimensione dell’opera permanente. Le gallerie sono frequentate da un pubblico che è direttamente interessato all’arte per cui il dialogo è diverso da quello con il grande pubblico della città o della campagna.
Certo, nelle gallerie e nei musei mi diverto molto e mi sento più sicuro: ho vicino gli amici! Nello spazio pubblico, invece, sei da solo con il reale quindi anche più libero, infatti il tuo sguardo spazia libero cercando limiti dove aggrapparti e di diventare pure tu parte di quel reale. Senti il vento, la roccia, il mare, gli alberi, i palazzi, la gente che passa, le macchine, tutto è vivo, reale; cambia in continuazione, devi lavorare come un velista che cerca di trovare una sintonia con le forze in movimento ed usarle per arrivare all’obiettivo. Allora le dimensioni sono una cosa che nascono da tutto questo.

GB Le opere come Runner (Il corridore), oltre alla Nike di Samotracia, che appartiene al patrimonio visivo di tutti gli uomini ma ancor di più al tuo, essendo greco, mi ricordano moltissimo le immagini di Boccioni negli Stati d’animo, dove la figura diviene la personificazione del moto.

CV  Il corridore di Atene è nato nel 1988 , un periodo, devo dire, ottimista per la Grecia dove si sognava un futuro migliore; ed inoltre era un periodo in cui avevo intuito che il pensiero analitico della ricerca, anche se obiettivamente giusto, arrivava ai suoi limiti. Credevo che la sintesi dei frammenti della rivoluzione industriali fosse l’unica maniera per ritrovare un nuovo rapporto con il reale. Negli ultimi cento anni abbiamo creduto che il pensiero analitico ci avrebbe portato a sistemi di pensiero che, applicati alla realtà, ci avrebbero salvato, purtroppo erano condannati, con nostra grande delusione, al fallimento e a creare in politica grandi disastri. Il corridore non voleva esprimere un’analisi del movimento di una figura nello spazio ma la sintesi dei frammenti in un nuovo movimento, cioè il contrario del futurismo.
Per Il Corridore l’obiettivo era spostare l’energia fuori dal lavoro che, allora, diventava un pretesto. Nelle città guardiamo le cose con la zona periferica dei occhi, raramente leggiamo le cose, piuttosto ... le sentiamo, quindi il lavoro non deve raccontare una storia, ma deve diventare la storia e fare parte dello spazio: dovrebbe nascere dallo spazio e non mettere nello spazio un’idea, anche se obiettivamente giusta, così solo ha delle speranze di diventare veramente un’idea e non una ideologia.

GB  Recentemente, nel 2010/2011, hai dato corpo ancora più evidente alla forza dell’energia, penso a Tension-Energy, realizzata a Lucerna in Svizzera. Qui, un’alta asta appena piegata per la tensione e una lunga corda che va a raggiungere una sorta di parabolica, ben rappresentano l’energia, senza la quale non ci sarebbe movimento, in quell’attimo prima che questo abbia inizio.

CV  Il lavoro a Lucerna era il quarto lavoro di grandi dimensioni che ho fato in Svizzera. La Svizzera è un paese molto particolare: infatti, dietro la sensazione di un’organizzazione perfetta, c’è la difficoltà di controllare lo spazio, di unire due punti nello spazio; per loro è una tragedia, mentre per noi è molto più facile. Pure politicamente la Svizzera, sebbene abbia un perfetto sistema di democrazia diretta, poi arriva alla disperazione, per la difficoltà di arrivare da un punto all’altro a causa del complicato sistema di leggi analitiche che impediscono il rischio e il superamento dei limiti. Penso che sia un paese in cui, dietro al silenzio, c’è una grande tensione, una grande energia. Ecco: proprio questa grande energia e questa tensione avevo in mente quando facevo il lavoro che era assai complicato tecnicamente per le sue dimensioni e le terribili condizioni climatiche che ci sono in questa area, specialmente d’inverno.

GB Veniamo ai materiali. Tu li usi di vario tipo, dal vetro al ferro, dalla pietra alla plastica ed altri ancora, ma è soprattutto il vetro il tuo materiale d’affezione. Perché è “trasparente”, quindi “puro” e tale che non consente inganni? Perché non è così malleabile come gli altri? E poi, non essendoci una grande tradizione in Grecia relativa al vetro, ma anche nel resto del mondo, per la scultura non ti dimostri “innovatore” anche in questo?
Sei talmente “padrone” dei materiali che non solo li ambienti con grande forza nelle piazze, nei luoghi urbanizzati, ma riesci a fonderli, senza alcuna tentazione naturalistica, nella natura; penso soprattutto a due lavori che, con sicurezza, possiamo definire “capolavori”: il suggestivo Il Poeta del 1997 a Casacalenda (CB) e La Morgia del 1996/97 a Gessopalena (CH), questo vede l’unione, in maniera straordinaria, di due pezzi di montagna, spaccata con una forma a V dalle bombe durante la II Guerra Mondiale, con lunghe assi di vetro, che in tal modo diventano non solo una sorta di eccezionale “restauro” della montagna, ma anche un emozionante pezzo di cielo.
Ma ricordo l’incantevole Horizon del 1996, in cui abbiamo un prato solitario davanti al mare su cui, in linea retta, si posizionano numerosi “tondi” di ferro riempiti per metà con liste di vetro, creando una simbiosi tra cielo, mare ed opera, i quali così si con-fondono e ci impediscono di capire bene dove sia la natura e dove l’artificio.

CV Quando ho fatto, la prima volta nel 1983, Il poeta, a Cipro con la fondazione DESTE, credevo di essere l’unico artista che lavorava il vetro, ma quando più tardi sono andato a New York ho scoperto che esistevano molte gallerie che esponevano artisti che usavano il vetro. Io non ho niente a che fare con la loro maniera di lavorare il vetro; cercavo, molto prima del vetro, di trovare il modo di usare lo spazio come materiale, infatti avevo nella mente allora l’infinito concreto, erano gli anni ‘70 e vivevo vicino Pescara a Francavilla al mare, e pensavo che dietro e davanti al quadro non ci fossero spazi da conquistare ma spazi da unire in un terzo livello, quello dell’infinito concreto, attraverso un processo sintetico. Il vetro è arrivato con Il poeta attraverso un processo analitico: il poeta è fragile, il poeta è pericoloso, il poeta è suicida, il poeta è esplosivo, il poeta è energia, il poeta è spazio, allora il materiale “vetro” è arrivato come un contenitore di spazio che attraverso la stratificazione temporale mi ricreava di nuovo l’equilibrio spazio-tempo. È stata un’esperienza magnifica perché vedevo davanti a me nascere quello che avevo sognato a Francavilla al mare, cioè proprio ritrovare l’equilibrio tra lo spazio e il tempo. Credo che dopo la rivoluzione industriale abbiamo avuto una temporalizzazione dello spazio, perdendo, contemporaneamente, quell’equilibrio e dando una eccessiva importanza al tempo. Con Il poeta ho visto che era di nuovo possibile ritrovare la sintesi. Inoltre vorrei dire che non mi sento “innovatore”, quanto piuttosto “ritrovatore”.
Parli degli Orizzonti: sai che vengo da una cultura agricola-pastorale, per la quale l’orizzonte è un limite che puntualizza lo spazio. Il primo Orizzonte è nato a Salonicco nel 1990, in un periodo in cui si cominciavano a scorgere i limiti delle ideologie, era un periodo di crescita ma anche di malinconia per le certezze perdute, tuttavia, se per molti era una tragedia, per me era un “orizzonte” che mi appariva davanti e che cercava un significato, era il “niente”, poi è venuta La Morgia. Mi hanno chiamato a fare un lavoro in quel paesaggio bellissimo e mi era molto difficile scegliere sia il lavoro che il posto; questo era così bello che non osavo toccarlo, ero pronto a rifiutare la commissione ma, quando ho visto La Morgia, ho chiesto informazioni e mi hanno detto che la fessura nella montagna era stata causata da un’esplosione durante la Seconda guerra mondiale: allora ho detto aggiustiamo il danno fatto!
Devo però dire che sono stato fortunato perché ho trovato persone molto sensibili nella zona, come Antonio Delaurentis, che mi hanno aiutato moltissimo nella realizzazione dell’opera; Giorgio Persano, poi, ha sintonizzato la produzione del lavoro e molti amici hanno collaborato.
La Morgia era una sintesi di tanti pensieri e tante persone, era la realizzazione dell’opera totale che cercavo da molto tempo. In un modo magico, vicino al vento e alla montagna e con la storia reale, io, la gente dei piccoli paesini e gli amici abbiamo guidato una nave e siamo passati tutti insieme dall’altra parte: così siamo diventati persone migliori dopo questo lavoro.

GB Credo sia giusto sottolineare, per finire questo nostro bel colloquio, che con la crisi del “monumento” tradizionalmente inteso, molti artisti anche tra i più bravi non riescano, nelle opere pubbliche, a superare la semplice collocazione di un lavoro “prelevato dallo studio”, tu invece fondi città ed opera, natura e scultura, dove, come già abbiamo detto, l’opera modifica l’ambiente ma l’ambiente modifica anche quella, così alla consapevolezza del creatore si aggiunge la casualità del tempo e dello spazio, in una forte monumentalità contemporanea, o no?

CV La monumentalità oggi dovrebbe acquistare un diverso rapporto con la realtà sociale: è finito il periodo delle idee che provenivano dall’analisi della realtà, cercando così una verità che ci dovrebbe salvare! Abbiamo capito che la rappresentazione delle idee che il Rinascimento ci ha permesso di esprimere non sono sufficienti per organizzare la nostra realtà, era una “vittoria” verso l’equilibrio ma non la soluzione. Con l’ottimismo della rivoluzione industriale abbiamo dimenticato l’equilibrio tra il reale urbano e il naturale, è questo un obiettivo che bisogna cercare piuttosto nel Medioevo. Questo valore platonico non lo ha sottovalutato il Rinascimento e lo ha portato all’era moderna come valore assoluto. La verità si nasconde dentro le cose nella società, nella natura e nelle persone e non fuori.
Oggi la monumentalità dovrebbe trovare la sua dimensione politica, dovrebbe nascere dal reale e, con il reale, acquistare di nuovo la sua dimensione di equilibrio dello spazio-tempo, per non essere vomitata dalla realtà che vomita oggi qualsiasi cosa che cerca di manipolare ogni valore reale che le appartiene: la manipolazione oggi è nuda!




 
Il Poeta 1997
Costas Varotsos
foto by Kerem
1997
 
 

Il Poeta 1997
Costas Varotsos
foto by Loretta Isotton
2012