by ARTE e CRITICA
LABORATORIO PALERMO. ZAC E LA RESTITUZIONE ALLA CITTÀ DEI CANTIERI
CULTURALI ALLA ZISA
a cura di Daniela Bigi
Questo viaggio è iniziato diversi mesi fa. E
mi pare di poter dire che, malgrado sia trascorso parecchio tempo, sia ancora
nel pieno del suo ritmo, animato dallo stesso clima e dalle stesse aspettative
delle prime settimane.
Veduta interna di ZAC.
ZAC è un'esperienza nuova
per l'Italia. E il fatto che sia nata a Palermo la rende dirompente. A pensarla
bene, potrebbe essere quasi letta come una dimensione da maggio
francese, quando ancora l'essere in tanti, l'essere combattivi, il
crederci, assumeva un valore politico reale dentro le coordinate del mondo della
cultura.
Così come allora, ZAC ha infuocato gli animi.
Ha anche dato vita a schieramenti contrapposti, certo, ma quando il 16 dicembre
tutto il mondo culturale cittadino si è riversato nell'enorme hangar delle ex
Officine Ducroux, è stato tangibile il fatto che una comunità si riunisse
intorno ad una istanza condivisa. Ed è da lì che siamo ripartiti. E tutto questo
è avvenuto mentre quasi un centinaio di artisti cominciava ad abitare
quotidianamente, come fosse il proprio, lo spazio pubblico, o meglio, lo spazio
istituzionalmente deputato all'arte. Spazio che peraltro, ormai, in tutti i
luoghi del mondo e sempre più clamorosamente, viene sottratto all'arte stessa,
per ragioni e modalità note a tutti (o a quasi tutti). Uno spazio che per la
prima volta poteva alimentarsi di energie diverse, di presenze eterotrofe, e
riconfigurarsi completamente.
A circa sei mesi di distanza, questi giovani e
giovanissimi artisti stanno ancora abitando ZAC, uno dei più affascinanti
Cantieri della Zisa. Liberi di crearsi un proprio habitat vitale e di ordinaria
quotidianità dentro quell'enorme contenitore comune, liberi di progettare il
proprio
esserci in un luogo carico di memoria storica e di investiture
simboliche. Ma al contempo costretti a fare i conti con la somma degli ego di
ciascuno e a confrontarsi con il generarsi inevitabile di dinamiche di gruppo
non sempre edificanti. Non si è trattato, insomma, di tornare nell'eden. Forse
tutt'altro, è stato un affondo autentico nella realtà.
Veduta esterna di ZAC.
Ci sono altre due componenti molto insolite
in questa vicenda di ZAC e vale la pena evidenziarle. Una vicenda che in non
pochi momenti ha rischiato di muoversi in terreni impervi e scivolosi. È
importante ribadirlo, altrimenti sfuggono i termini complessivi di un progetto
molto ambizioso. La prima riguarda il Comitato scientifico (composto da
Alessandro Bazan, Daniela Bigi, Francesco De Grandi, Gianna Di Piazza, Eva Di
Stefano, Paolo Falcone, Luciana Giunta, Giuseppe Marsala, Francesco Pantaleone,
Alessandro Rais, Sergio Troisi, Emilia Valenza con il coordinamento di Antonella
Purpura). Tante teste, tante visioni dell'arte, tanti ruoli differenti,
posizioni critiche, posizioni fisiche dentro il mondo dell'arte. Tante
persone in passato anche distanti, riunite intorno ad un tavolo di lavoro per
progettare la struttura e il destino di un'istituzione civica. Percorso impervio
dunque, ma civilmente molto significativo.
L'altra riguarda il fatto che a
due artisti, Alessandro Bazan e Francesco De Grandi, facenti parte del Comitato,
è stato chiesto di condividere quotidianamente questa dimensione di coralità
progettuale, ponendosi come riferimento immediato, costante, dei giovani
artisti abitanti. Ed è alla memoria di un artista a loro molto caro, ma
caro anche a tante delle figure coinvolte in ZAC, Andrea Di Marco, scomparso
troppo prematuramente, che è dedicato l'intero progetto.
DB: Alessandro, Francesco, voi potete
raccontare meglio di chiunque altro la sostanza e la struttura di questa
esperienza collettiva e restituire appieno il valore di questo segno all'interno
della vita culturale palermitana.
Da cosa vogliamo partire? Forse
dai sentimenti di libertà, appropriazione, responsabilità, condivisione e magari
anche costrizione che hanno circolato in questi mesi nel capannone di ZAC?
Oppure, se sulla base di questa vostra immersione senza riserve, vi sembra più
urgente partire da qualche altro aspetto, procedete pure. Ancora una volta, e
giustamente, a voi la conduzione del gioco...
Francesco De Grandi: Emergenza. Questo è il
filo conduttore che ci accompagna da sempre a Palermo. Anche in questa occasione
l'emergenza, declinata in tutti i suoi aspetti, si propone come motore
energetico di ZAC, un'emergenza che unisce pensieri utopici di un gruppo di
persone che sta cercando di portare ad un livello almeno di normalità la
gestione di uno spazio museale pubblico. La prima chiamata per me è stata un
anno e mezzo fa quando un movimento cittadino si è mobilitato per scongiurare un
processo di disgregazione dell'identità dei Cantieri Culturali e per porre
l'attenzione su uno spazio pubblico dedicato alla cultura abbandonato da anni.
Uno spazio che contiene un cinema pubblico di 800 posti e un museo per l'arte
contemporanea pronti per l'uso e chiusi inspiegabilmente da tempo immemore. Dopo
un cambio di giunta eccomi qui, di nuovo con un'altra emergenza: quella di
pensare ad una identità per questo museo, una governance, e nel frattempo di
aprirlo, riconsegnandolo alla città. Una città assopita, divisa, senza una reale
massa critica, stritolata da problemi enormi e, cosa ancora più pericolosa,
rassegnata. Allora bisogna ripartire dall'idea di comunità, innescare quei
processi virtuosi che portano le persone a dialogare e ad abitare gli spazi che
di fatto sono "comuni", cioè di ognuno.
E non solo. In tempi in cui i musei
sono diventati sterili contenitori la cui neutralità li fa terra di nessuno,
occupati da ufo, da mostre che non lasciano più nulla al tessuto che li ospita,
pensare uno spazio dove le opere si generano in un laboratorio connesso con la
città ci è sembrata l'unica via per ricucire una pelle slabbrata e guardare agli
artisti palermitani come a un'emergenza in emergenza. Ricostruendoci, come
cittadini prima che come artisti. Allora ZAC potrebbe essere la piattaforma dove
viene garantito il "diritto di artisticità". Un grande laboratorio
attraversabile, un laboratorio politico, un luogo dove far crescere le
eccellenze e garantire loro spazio e confronto. Il progetto prende forma e
diventa la cartina di tornasole del Comitato scientifico, la sala-prova dove
sperimentare quel modello che a fine mandato verrà consegnato all'istituzione,
con la testimonianza di tutti quelli che si sono avvicinati, che hanno
collaborato, sperimentando sulla propria coscienza che cosa vuol dire essere
assieme, essere comunità.
E qui prende forma la pratica quotidiana del
dialogo, della presenza sul campo. Un incessante lavoro di autodeterminazione,
di educazione alla convivenza e allo scambio. Smussare l'ego, portarlo a
servizio della comunità. Credo che quando guarderemo questa mostra, ciò che sarà
evidente e che restituirà il valore di questo progetto sarà la forza di
un'esperienza condivisa, che si ritrova in tutti i lavori, perché anche in
quelli più solitari c'è sempre una mano che ha collaborato nel processo di
gestazione, un'idea che è circolata nello spazio, l'aiuto anche fisico
dell'altro, la condivisione in assemblea delle suggestioni che lo spazio
provocava nel gruppo. Sono anche nate molte collaborazioni spontanee, il
"facciamolo assieme" è stata una frase che ho sentito spesso nei gruppetti che
hanno abitato questo hangar che il primo giorno ci sembrava sterminato e che
oggi risulta addirittura troppo pieno! Sono nate collaborazioni anche
esternamente a ZAC, alcuni artisti si sono uniti a creare piccoli eventi
improvvisati in vecchi palazzi del centro storico, oppure in atelier aperti ad
eventi di un giorno, sono nate collaborazioni con artisti che hanno "transitato"
il laboratorio, sono nati nuovi amori, vedere crescere questo dentro uno spazio
"istituzionale", un museo che non diventa mausoleo ma spazio aperto, mi fa
sognare una città diversa. Anche se tutto questo non dovesse vedere la luce,
rimane l'esperienza, lo spostamento della coscienza. Il laboratorio è stato
luogo di transito, di discussione. E io e Alessandro possiamo dire di avere
avuto l'appoggio di tutti, di Paolo Falcone che ha partecipato costantemente sul
campo al dispiegarsi delle idee, di Gianna Di Piazza, Emilia Valenza, Eva Di
Stefano, Daniela Bigi, Sergio Troisi, Francesco Pantaleone, e dall'Assessore
alla Cultura Francesco Giambrone, che ha dato fiducia a ciò che sulla carta era
un grosso azzardo. I "fiancheggiatori esterni" come la preziosa Tiziana
Pantaleo, Salvatore Davì, Fabrizio Fucà, Eleonora Marino e tanti altri che per
amore della città ci stanno dando una mano fondamentale, Lorenzo Bruni, che ha
creato incontri interessantissimi come quello di Fabrizio Basso che da transito
si è trasformato in collaborazione con il collettivo Fare Ala.
E soprattutto
degli artisti di Palermo, che hanno dimostrato una pazienza, una generosità e
una fiducia grandissima nei nostri confronti e una voglia di riscatto, di
dignità e di amore nei confronti della loro città.
Un lavoro difficile, una
macchina che deve riavviarsi ancora, per l'ennesima volta, caparbiamente, con il
"dovere di servizio" (come amava dire Giovanni Falcone) di quelli che nonostante
le troppe primavere deluse alle spalle credono ancora che ci sia un'etica e un
dovere civico: quello di provare a spostare anche di un solo centimetro il
baricentro politico di una città asserragliata dal malaffare,
dall'indottrinamento televisivo e dalle scarpe con la suola
rialzata.
Veduta dei cantieri culturali alla ZISA, Palermo.
P.S. Perdere un compagno di trincea è la cosa
più triste che può succederti in battaglia, specialmente se era quello che ti
copriva le spalle.
Alessandro Bazan: Ci tengo a dire che non
siamo pagati! E che comunque vada a finire questo bizzarro progetto, la mia
responsabilità me la assumerò tutta, costi quel che costi.
L'esperienza di
lavorare insieme ad altri è stata traumatica per me fin dal principio, data la
mia pigrizia, scarsa diplomazia, e la mia impazienza. Non è stato facile
all'inizio far passare l'idea di un posto di pubblico servizio con la vocazione
artistica da aprire con il lavoro in crescita di giovani selezionati,
tantissimi, che operano in un grande spazio che una volta aveva visto il lavoro
vero (serviva alla produzione di idrovolanti durante la seconda guerra
mondiale), aperto oggi per ospitare il lavoro dell'arte. Molto rischioso.
Problema non da poco e iniziale ostacolo nelle sofferte ma intense sedute del
gruppo di lavoro di ZAC, evitare di scadere in obbrobri da kermesse italidiote.
Kermesse tra l'altro è una parola che mi sta veramente antipatica.
Devo dire
che non tutti erano convinti che questa fosse una buona idea, ma dato che, come
avrete capito, non c'è una lira, siamo riusciti a sfruttare la mancanza di
alternative per meglio sostenere la nostra proposta. Meglio sarebbe stata
qualsiasi altra cosa, è vero, tuttavia per come la vedo io si doveva sfruttare
l'occasione per dare spazio agli artisti e per presidiare con l'arte un edificio
tra i tanti, che va difeso dalle speculazioni di basso bordo o dall'ennesimo
spreco. Come dire, l'arte a protezione di un patrimonio culturale e
paesaggistico troppo spesso concesso con leggerezza (per non dire altro) a
società private la cui dubbia competenza e vocazione sta creando in Italia un
vero e proprio, scandaloso, sfacelo. Per altri motivi non credo che nel nostro
paese l'arte italiana abbia goduto di un poco più che pessimo rapporto con le
istituzioni, e che anzi si debba tenere quanto più possibile alla larga dalla
facilità e dalla strumentalizzante cecità della politica, di
sempre.
Francesco Giambrone ha deciso di chiederci, differenze tra di noi a
parte, di aiutarlo ad aprire questo spazio che sulla carta è un museo d'arte
contemporanea, e a consegnarlo alla città di Palermo, per sottrarlo quanto più
possibile ad un destino incerto. Ecco allora l'idea di ospitare un laboratorio
di giovani selezionati grazie anche alla quantità di talenti concentrati intorno
all'accademia che qui svolge, suo malgrado, funzioni che non le competerebbero,
data la mancanza di tutto e dei pochi momenti nei quali l'arte di oggi trova
spazio in città. Giovani affamati di tutto, che qualcuno comodamente critica
contestandogli una gratuità che io considero invece vera generosità, sono stati
pronti ad affrontare questa avventura che qui assume un senso di unicità
veramente rivoluzionaria.
Palermo poi è una bellissima città, nella quale si
vive abbastanza male perché il lavoro è beceramente considerato un’infamità;
tutto ciò la pone in uno stato di degrado ambientale, sociale e culturale
enorme, che negli anni ho, purtroppo, visto proliferare anche nel resto
d'Italia. Lontani gli anni nei quali per un provinciale palermitano raggiungere
Milano sembrava spingersi all'estero, in un altro paese…
Ciò nonostante,
permane a Palermo una posa di decadenza ottocentesca nella quale noi cittadini e
visitatori stranieri continuiamo a crogiolarci considerando l'humus palermitano
qualcosa di speciale, una sorta di atavica presunzione assolutamente priva di
fondamento almeno nella storia recente. Ma io credo nella proficuità delle
scommesse anche perse, a discapito di una più ponderata inazione.
A mio
avviso lo spazio serve anche a questo, da un lato a individuare un contesto
esistente e non ancora codificato che trova rifugio nell'arte per ripararsi
dalla perdita di estetica crescente, un contesto che, sfuggendo la tipicità, ha
ancora vitalità, spontaneità, e voglia di confronto, che non è ancora caduto in
depressione.
In più, ad alcuni di noi sembrava interessante coinvolgere il
pubblico giorno per giorno, attraverso visite quotidiane, per rivelare il
processo di costruzione dell'opera, ritenendo ciò importante per avvicinare alla
cultura dell'arte persone che non sono abituate a goderne la fruizione, i
cosiddetti cittadini.
Tra i componenti del comitato scientifico io e
Francesco ci siamo occupati del laboratorio vero e proprio, che va avanti da più
di quattro mesi e nel quale la pratica che stiamo facendo, proprio perché fatta
a Palermo, è probabilmente unica nel suo genere. Gli artisti lo hanno utilizzato
come studio, per alcuni di essi il primo, probabilmente. I disagi della
coabitazione si incrociano con la difficoltà quotidiana, ogni cosa è stata
difficile perché il sostegno che dovevamo avere dalla società che doveva
occuparsi di questioni logistiche è stato pressoché inesistente, tale da
condurci spesso allo sconforto, ma questo meriterebbe un approfondimento a
parte.
Il laboratorio sta andando avanti comunque e l'energia che dentro si
respira è bellissima. È sempre esaltante vedere gli artisti all'opera. I
transiti e gli attraversamenti sono partiti spontaneamente e abbiamo già
relazioni con la Kunstverein e con l'Accademia di Düsseldorf. Abbiamo incontrato
Patrizia Sandretto. Q
uel giorno siamo rimasti al
buio e lei ha parlato della sua fondazione praticamente a lume di candela e
senza l'ausilio di alcuna tecnologia. Ma se l'è cavata benissimo, sapeva di
sabotaggio! O l'incontro con Jean-Luc Nancy che, parlando di danza, ha preso ad
esempio la foto di Paterniti, giovane astro nascente della fotografia. Sono in
programma molti di questi incontri e laboratori con artisti e curatori che si
stanno dimostrando disponibili a venire a Palermo.
Non vorrei una mostra
finale, sarei andato avanti così per un po' di tempo, con il laboratorio,
tenendolo il più aperto possibile alla produzione dell'arte intesa come
partecipazione, per dare spazio ai bisogni reali delle persone e degli artisti,
perché gli artisti possano fare il loro mestiere e cioè prendere lo spazio. Ma
penso che i passi si facciano uno alla volta e intanto mi dà una certa gioia che
ZAC ci sia e sia in piena, seppur faticosa, attività. E per una volta non so
come andrà a finire.
Transito con Jean-Luc Nancy, foto Rosellina Garbo.
DB: I Cantieri Culturali alla Zisa, dopo
una stagione gloriosa, hanno versato per parecchi anni in uno stato di
abbandono, mantenuti in vita da alcune istituzioni culturali – dal
Goethe-Institut, alla Biblioteca dell'Istituto Gramsci, all'Accademia di Belle
Arti – che ne hanno capito l'enorme potenziale e non hanno smesso di credere in
un grande progetto cittadino, pur subendo quotidianamente lo scacco del
degrado.
Decidere di riaprire i Cantieri alla città, così come ha
fatto l'Assessore Giambrone subito dopo il suo insediamento, oltre a segnare una
continuità progettuale con quanto avviato molti anni or sono, rilancia un
disegno culturale che vede nella coabitazione e nell'intersecarsi delle varie
discipline dell'arte la possibilità reale di una crescita della città a partire
dai valori dei quali la cultura è di fatto portatrice.
Questa
riapertura è passata attraverso diverse fasi e sta seguendo un determinato
orientamento progettuale.
In qualità di Responsabile dei Cantieri, e
quindi di ideatore, o comunque co-ideatore, del nuovo volto che quest'area della
città dovrà assumere, in quali passaggi sintetizzeresti quanto fatto fin
qui?
Giuseppe Marsala: Vi sono due aspetti che
considero abbastanza centrali dei passaggi sin qui compiuti. Due aspetti di uno
stesso processo che riguarda il modo con cui una comunità si riconosce in un
luogo. E di come questo luogo si apre alla città. Il primo riguarda i principi
che sono stati introdotti circa l'utilizzo degli spazi. Un principio che ha
visto affiancare ad alcuni progetti pilota molto sperimentali, come ad esempio
quello di ZAC, un certo grado di libertà lasciato ai cittadini, alle
associazioni, ai gruppi e agli operatori culturali di proporre progetti e di
poterli sviluppare per un periodo temporaneo all'interno dei Cantieri. Il tema
della temporaneità ha consentito a moltissime realtà di potersi esprimere e di
non vivere la frustrazione o la competizione sfrenata dei bandi che assegnano a
tempo definitivo qualcosa a uno solo, lasciando fuori gli altri. Ha allargato il
senso di partecipazione e di condivisione di un posto che la città ha percepito
come aperto, attraversabile. Come un luogo del possibile.
Questa condizione,
nei casi migliori, ha inciso fortemente sui processi creativi stessi, costruendo
situazioni molto generative dal punto di vista delle ideazioni. E in più ha
generato una capacità di co-abitazione e di co-generazione di idee che si è
verificata in una forma molto naturale, senza percorsi troppo precostituiti. Il
progetto, dunque, sta più nel creare alcune condizioni fertili e mettere a
sistema alcune risorse, piuttosto che importare pacchetti preconfezionati e
generati a freddo fuori da una condizione condivisa. Credo che questa cifra sia
molto importante, specie in questo nostro tempo incerto e lacerato da una crisi
che rende tutti i sistemi più fragili. E penso che una politica capace di
costruire questo processo sia l'unica in grado di ripartire davvero dalle
comunità. E che alla lunga solo così le comunità possano riappropriarsi di
alcuni significati spesso andati dispersi, prima tra tutte la nozione di "spazio
pubblico". Tutto questo, se osservato con attenzione, costruisce le domande e i
programmi che l'architettura può tradurre in termini di progetto, e dunque in
termini di scelte ed indirizzi per le trasformazioni future.
Il secondo
riguarda l'apertura e l'integrazione con la città da un punto di vista
fisico.
Aspetto, questo, più complesso, che riguarda processi lenti di
assimilazioni che la città può fare rispetto a certe scelte di natura
urbanistica o architettonica.
Il tema del muro di cinta che separa i Cantieri
dal tessuto urbano circostante, ad esempio, è uno dei temi centrali di cui mi
sono occupato sin da subito e intorno al quale si sono sviluppate molte
discussioni. Eppure abbattere subito tutto il muro, prima cioè che si avviasse
il processo di ri-identificazione della città con i Cantieri, avrebbe esposto
l'area ad un eccesso di denudamento, senza che essa avesse ancora gli anticorpi
urbani per reggere un cambiamento davvero così radicale. Bucarlo a poco a poco,
così come sta avvenendo, coinvolgendo gli artisti intorno al "pensare
l'apertura" prima che a realizzarla, sta producendo un effetto di cura e di
attenzione che costituirà a brevissimo l'unico vero possibile presidio urbano di
un'area che per estensione e densità equivale ad un vero e proprio pezzo di
città. Come in ogni buon progetto di spazio pubblico, dunque, ciò che appare
necessario è in primo luogo la ricostruzione del pubblico in quanto tale,
inteso, cioè, come una comunità della polis che chiede di abitarlo.
DB: Quali altre scelte state compiendo
per la riqualificazione dei Cantieri e di questa parte della città?
GM: Prima di questa nuova fase di recupero, i
Cantieri erano un luogo difficile da comprendere. Da una parte erano un buco
nero; una rimozione cartografica; un paesaggio post; una archeologia di una
archeologia, ancora troppo giovane per essere riconoscibile come tale. E nello
stesso tempo erano attraversati dai giovani dell'Accademia, o del Centro
Sperimentale di Cinematografia che, muovendosi come controfigure, rendevano
ancora più stridente e surreale questo luogo/non luogo; questo simulacro in
attesa di qualcosa. La prima scelta è stata quella di lavorare sul paesaggio
urbano, di ridefinire sfondi in cui le figure umane si muovessero entro un certo
senso di familiarità, consapevoli di partecipare alla ri-fondazione di un luogo.
In questo senso è stata decisiva la scelta di cominciare da due spazi aperti, di
cui uno è il giardino di ZAC, da cui si ammira il castello della Zisa da un
punto di vista inedito e sorprendente e in cui è stata collocata la Torre
del Tempo di Emilio Tadini, unico esempio di arte pubblica presente a
Palermo.
DB: Fin dalle prime battute ti sei mosso
infatti sulla questione delle aree vuote e del verde, muovendoti evidentemente
all'interno di un pensiero che in questi anni ha spesso ritrovato nella gestione
di questi temi urbanistici una risorsa che poi è andata a contagiare anche altri
settori della progettazione sia architettonica che urbanistica. Penso a Clément,
per esempio, a Yona Friedman, per intenderci. Come pensi che vada gestita questa
risorsa all'interno dei Cantieri?
GM: Questa questione e questa risorsa aprono
il tema più generale della bio-diversità, che è declinabile in termini di
bio-diversità urbana, sociale, di linguaggi ecc. Un tema in cui la forza della
natura e delle cose riprogramma il mondo ed il paesaggio lavorando in primo
luogo con il tempo. I Cantieri sono una rappresentazione plastica del terzo
paesaggio clementiano. E ciò vale anche per gli edifici e non solo per gli
elementi vegetali.
E – come ormai è definitivamente assodato anche sul piano
teoretico – solo l'esperire un posto può generare una sua trasformazione che
possa dirsi davvero consapevole e aderente ai processi che la vita di quel posto
trascrive quotidianamente. Un'esperienza che chiede al progetto urbano e di
architettura un'osservazione partecipante in cui il tempo è uno dei materiali di
progetto, in cui più che la forma in quanto tale conta il processo che la
genera; e in cui i suoi contenuti sono oggetto di una "manutenzione ordinaria" e
quotidiana dei processi che li generano. Una prospettiva low-fi, dunque, sembra
quella in grado di garantire la vita di uno spazio pubblico che per sua natura
deve mantenersi flessibile, attraversabile, aperto e inclusivo di quella
bio-diversità urbana di cui le metropoli contemporanee sono oggi
portatrici.